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L'arco

Regia di Kim Ki-duk vedi scheda film

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La recensione su L'arco

di ethan
6 stelle

Un uomo anziano (Seong-hwang Jeon) vive con una ragazza (Yeo-reum Han), fin da quando lei era poco più di una bambina e ora sta per compiere 17 anni, età alla quale l'uomo è intenzionato a prenderla in sposa, su una chiatta dove ospitano dei pescatori occasionali, ai quali viene anche predetto il futuro con uno strano sistema: la giovane viene calata su una specie di altalena, che fuoriesce dalla barca, e mentre lei dondola, l'uomo scocca delle frecce che, a seconda di dove si conficcano, hanno un diverso significato, che poi viene svelato dall'anziano a chi ne ha fatto richiesta, sussurrandoglielo all'orecchio. L'equilibrio tra i due, con la ragazza che, adagiata in una tinozza, accetta pazientemente le amorevoli cure corporali del vecchio, viene minato dall'arrivo sull'imbarcazione di un pescatore pressoché coetaneo della ragazza che, subendo il fascino ed accettando la sua corte, di fatto scatena la gelosia e l'ira del barcaiolo.

Dopo la violenza inaudita delle prime, furenti ed imperfette opere, che raggiungono il culmine con punte estreme di sadomasochismo in 'L'isola'  e la poesia e la perfezione dei successivi 'Primavera, estate, autunno, inverno e ancora primavera' e soprattutto 'Ferro 3', con 'L'arco', Kim-ki Duk smussa (in gran parte) tale componente violenta, costruendo un'opera rarefatta e poetica, basata su una storia d'amour fou impossibile, con dialoghi ai minimi termini, lunghe scene contemplative, segnate da una dolcezza di fondo (il vecchio si prende amorevolmente cura di lei lavandola e tenendole la mano mentre dormono) a cui fanno da contraltare incontrollate esplosioni di gelosia, che si tramutano in intimidatori dardi scoccati all'indirizzo del corteggiatore di turno, il tutto ad un ritmo lento e compassato.

L'autore sud-coreano convince, anche se il suo formalismo a volte sfocia in un'irritante manierismo, nella messa in scena dell'ambiguo rapporto uomo-ragazza, ma meno nelle sue scelte di sceneggiatura, specie per un finale fortemente simbolico che corre il rischio di (s)cadere nel ridicolo involontario.

Monocordi i tre interpreti principali.

Voto: 6 (v.o.s.).

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