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L'uomo caffellatte

Regia di Melvin Van Peebles vedi scheda film

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Questo testo contiene anticipazioni sulla trama.

La recensione su L'uomo caffellatte

di sasso67
8 stelle

«Una mattina Gregor Samsa, destandosi da sogni inquieti, si trovò mutato in un insetto mostruoso. Era disteso sul dorso, duro come una corazza, e alzando un poco il capo poteva vedere il suo ventre bruno convesso, solcato da nervature arcuate, sul quale si manteneva a stento la coperta, prossima a scivolare a terra. Una quantità di gambe, compassionevolmente sottili in confronto alla sua mole, gli si agitava davanti agli occhi. "Che mi è accaduto?" pensò». Il signor Jeff Gerber, invece, una mattina si sveglia trasformato in un negro (alla faccia del politicamente corretto, il regista Melvin Van Peebles parla di un razzista ed usa un linguaggio da razzisti). E per il signor Gerber, uno per il quale i neri devono continuare a fare i barman che subiscono le sue battute e un nero che fa l'autista del bus gli pare già un poco tollerabile passo verso la decadenza dei costumi, per lui, dicevo, trovarsi così mutato, è peggio che ritrovarsi trasformato in uno scarafaggio. La sua vita cambia radicalmente dal giorno alla notte, o meglio, dalla notte al giorno. Solo perché nero, è sospettato d'essere ladro e stupratore, né viene lasciato entrare nei club riservati ai bianchi; per di più viene gentilmente pregato e profumatamente (ed ipocritamente) pagato dai suoi vicini di casa perché lasci il quartiere. Perfino la moglie lo abbandona. Ma anche chi evita di trattarlo come un paria, lo fa, in realtà, per un pregiudizio altrettanto radicato: quello della potenza sessuale del mandingo. "L'uomo caffellatte" è un film decisamente divertente, che tratta della presa di coscienza del razzismo quotidiano da parte di uno che proprio del razzismo faceva una delle sue ragioni d'essere, una colonna portante dell'american way of life. E Van Peebles, padre di tanto cinema nero dai primi anni Settanta in avanti, dalla blaxploitation a Spike Lee, tratta la materia con amara ironia, senza mai farsi prendere dallo sconforto, senza compiacere il gusto dei bianchi né la comprensibile volontà di rivalsa di quelli che oggi sono definiti afroamericani e che fino ad una quarantina d'anni fa erano poco più che un dettaglio nei panorami delle città e delle campagne americane. La parabola kafkiana colpisce lo spettatore, costretto a confrontarsi, seppure con i toni sorridenti di un'intelligente commedia, con questa schiacciante ingiustizia che prosegue ai giorni nostri.

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