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Il testamento del mostro

Regia di Jean Renoir vedi scheda film

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La recensione su Il testamento del mostro

di spopola
8 stelle

Il film descrive una precisa realtà psicologica e sociale ambientata in una periferia misteriosa e decadente di una Parigi modernista e funzionale. La tesi è ineccepibile: dentro ognuno di noi esiste un Opale che a stento le convenzioni della società e la sottile maschera della nostra "civiltà" riescono a contenere e tenere a bada.

Come già fece (magnificamente) Rossellini, anche Renoir nella fase finale della sua carriera si trovò a sperimentare (e adeguare) il proprio stile alle differenti esigenze del mezzo televisivo con risultati decisamente interessanti.

E’ il caso appunto di questo Le testament du docteur Cordelier da Stevenson, realizzato dal regista per la televisione francese nel 1958, e quindi facendo i conti proprio con il diverso tipo di linguaggio da utilizzare (lunghe prove, prima solo con gli attori, poi anche con le macchine e i tecnici per sperimentare movimenti e risultati e assicurare la fluidità del racconto). La continuità da imprimere all’azione, fu privilegiata e garantita durante le tre settimane di riprese (tanto durò la lavorazione effettiva) rendendo quasi sempre operative in simultanea ben cinque telecamere per registrare le scene da differenti angolazioni ed eliminare così la meccanicità di molte “ripetizioni”, una metodologia questa che influì anche sul modello recitativo degli attori, tutti efficaci, e soprattutto sull’eccellente prova di un Barrault, davvero superlativo nel rendere differenziate le sue due incarnazioni grazie alle sue eccellenti doti di “trasformista” (il film non ricorre né a dissolvenze né utilizza effetti speciali, ma lavora essenzialmente – con i necessari stacchi - sul trucco e sulle capacità mimetiche  dell’interprete come vedremo in seguito: con tante macchine da presa, l’attore – ebbe a dichiarare il regista – non sa mai qual’è quella a favore della quale deve recitare, e ciò gli da un’estrema libertà di movimento anche espressivo e a me la possibilità di scegliere ciò che risulta essere maggiormente funzionale).

In quegli anni era in effetti in corso un acceso dibattito su come si poteva e si doveva fare “cinema” in televisione (o semplicemente utilizzare al meglio il mezzo) portato avanti in prima persona oltre che da Rossellini (reduce dalla serie televisiva dei documentari sull’India) e da un Renoir di sorprendente esuberanza “giovanile” nonostante la sua non più tanto verde età, anche da Bazin, un altro eccellente nome che riteneva fondamentale riuscire a fare davvero una televisione di qualità per (ri)formare le coscienze e il pensiero delle masse, vista la forza penetrativa del mezzo (e che spingeva dunque i registi a lavorare seriamente in quel senso).

Le linee evidentemente erano state tracciate (e rese disponibili come metodo) proprio da ciò che già avevano sperimentato questi due numi tutelari se, sulla base degli esiti pratici verificati sul campo, quelle posizioni non più solo teoriche, fecero scrivere a Gobetti già a quel momento: a prescindere da quelli che potranno essere i risultati pratici nel prosieguo e alla distanza, è proprio un atteggiamento aperto e spregiudicato come quello di Renoir e Rossellini che potrà contribuire a far uscire la Tv dalla sua minore età diventando finalmente adulta e sorretta da una sua necessaria specificità di linguaggio.

Sappiamo che Rossellini andò poi molto avanti rispetto a quelle iniziali enunciazioni abbastanza embrionali, e c’è tutta la sua copiosa opera realizzata successivamente per il piccolo schermo a documentarlo. Per il più limitato lavoro di Renoir al contrario, resta soprattutto questa pellicola che esplicita perfettamente il suo pensiero e gli obiettivi che intendeva raggiungere che possono essere sintetizzati nella necessità di creare un linguaggio più concettualmente strutturato utilizzabile  come strumento formativo di “coscienza” e di acquisizione di un più raffinato “gusto”anche critico. Per fare ciò, il regista sceglie infatti di raccontare “a suo modo”, una storia “popolare”, appartenente per altro a un genere ben definito, tanto sfruttato e “gradito” dal pubblico, che di solito, se messo in mani più meramente commerciali, tende piuttosto – proprio per come viene elaborato - alla negazione del “gusto” più che alla sua esaltazione. Ribaltato così alla base il concetto della conformità “rispettosa” dei canoni dell’effettistica costruzione della “paura”, ne viene fuori un’opera sorniona e malinconica al punto giusto (soprattutto nel finale), che gioca le sue carte migliori proprio attivando il rischioso tasto dell’ironia (che con l’horror vero e proprio ha spesso poco da spartire) e che si differenzia sostanzialmente dallo stereotipo. Un film “inusuale” dunque con il quale Renoir riconsidera sulla base della sua visione delle cose e della vita, destrutturando (e ristrutturando) dall’interno, tutto quello che dal romanzo di Stevenson era stato fino a quel momento ricavato cinematograficamente parlando mantenendone però inalterate le inquietudini esistenziali di fondo. Perché si può davvero ben dire che di Stevenson è rimasto soprattutto lo spunto, mentre l’idea centrale e il concetto fondante della “rivisitazione” operata, sembrano essere diventati elementi più Goethiani proprio nell’aver  trasformato il problema morale del racconto in una sottile questione psicofilosofica, considerando appunto che entrambe le figure (Cordelier e il suo doppio) sono in effetti presenti più nella dimensione psichica di ciascun individuo che nella realtà fattuale della collettività, e se ci facciamo particolare attenzione potremo rilevare che si tratta di posizionamenti conflittuali  drammaticamente esaltati, che si rintracciano anche nel personaggio dello psichiatra.

Renoir ha comunque affrontato la densa materia Stevensoniana, rispettando sostanzialmente la trama (se vogliamo, le variazioni sono abbastanza marginali, nonostante la modificazione dei nomi), ma con una assoluta e “sfrontata” disinvoltura anche decisionale per quanto riguarda le “scelte” di fondo. In questo senso, la storia è stata persino attualizzata per quanto gli era possibile fare, sostituendo alla consueta e abusata  lugubre atmosfera nebbiosa e fatiscente della Londra ottocentesca dei lampioni a gas, con l’altrettanto degradato grigio squallore della banlieue parigina degli anni ‘50, oltre che con la debordante geometricità delle scalinate di Montmartre  e il razionalismo esasperato di alcune delle più recenti architetture del periodo.

Il tentativo di aggiornamento “nobilitativo” del genere, si può dunque dire perfettamente compiuto soprattutto sul piano estetico, grazie del resto alle inconfondibili qualità del regista che non potevano oggettivamente fa dubitare sul risultato. Sul piano etico forse l’esito è invece leggermente più “mediato”, ma ciò è dovuto sicuramente al fatto che era in ogni caso necessario fare i conti con la costruzione stessa delle vicenda, visto che non sarebbe davvero stato possibile liberarsi completamente di tale presupposto (ci proverà a suo modo molto tempo dopo e con esiti a mio avviso particolarmente “affascinanti”, ma generalmente poco compresi, Stephen Frears con il suo Mary Relly, e se ancora nel 1996 un’operazione tanto azzardata  poteva suscitare così profonde e avversate perplessità, figuriamoci che cosa sarebbe potuto accadere nel 1958 se tanto tanto il regista avesse tentato qualcosa di ancor più “radicale”).

Diciamo comunque che in ogni caso il suo intervento è stato significativo, visto che questa volta non assistiamo, come nelle precedenti versioni, semplicemente alla lotta fra il Bene e il Male (che rischia  sempre di diventare una contrapposizione simbolica), ugualmente presente, ma spostata nel diretto conflitto, decisamente più “umanizzato” (e mi viene da dire “più concreto”) fra un medico borghese schiavo delle convenzioni sociali (e perciò artefatto, tutt’altro che genuino, odiosamente criticabile per questo suo atteggiamento), e un suo alter ego più emancipato e cosciente, del tutto svincolato da qualsiasi “regola del gioco” già definita (e quindi “schiettamente” autentico, in qualche modo “positivo” al di là delle azioni che compie).

L’avventura dello scienziato (che assume un senso molto similare a quello che si potrebbe definire della “creazione”) e del suo “mostruoso”  operare su se stesso,  è il progetto con il quale insegue e attua proprio il sogno riguardante la modificazione strutturale dei processi mentali dell’individuo (il trionfo delle mie teorie, è la giustificazione di tutta la mia vita professionale: creerò ciò che rappresenta in me il male e dopo lo cancellerò per sempre dalla mia esistenza è una delle battute chiave del “personaggio” Cordelier) che ci conduce  – ma solo in apparenza -  al consueto rigido manicheismo (la coesistenza e il conflitto praticamente inconciliabile dei due principi contrapposti a cui accennavo sopra) ma – come si è visto - con una visione (e già questo è straordinariamente innovativo)  più astrattamente (ir)razionale del solito, pur fortemente radicata nella realtà (ed è tutt’altro che un controsenso): Cordelier è un paranoico, afferma lo psicanalista Séverin, suo rivale, ed è un concetto questo talmente preciso, calzante e “riconoscibile”, che potrebbe esser fatto proprio persino dallo spettatore, spostando così l’ottica della visione in una dimensione molto vicina a quella della schizofrenia.

E poi c’è il tema tutt’altro che secondario della “non accettazione del male” (o meglio il rifiuto di ammettere la sua co-esistenza anche dentro di noi): Cordelier-Opale (che è il nome del suo doppio) rievocherà infatti al termine del suo percorso esistenziale la sua tragica vicenda “personale” affermando che lo spirito del male non cessava mai di tormentarlo, e possiamo davvero credergli visto che comprendiamo dall’andamento della storia, che proprio tale concetto sempre presente nella sua dualità disturbante, rappresentava “il” problema che aveva ossessionato Cordelier fino dall’infanzia, e che diventerà purtroppo (e di conseguenza) ancor più angoscioso e angosciante proprio quando “apparentemente”, il risultato della “scissione” è stato finalmente conseguito e portato a compimento: ero diventato un essere libero da tutte le costruzioni, un riflesso di me stesso distorto dai miei istinti. Sarà infatti proprio in quel momento che tornerà ad avere la meglio la consueta e consunta morale, che è poi in questo caso, la convinzione di aver peccato per aver osato mutare l’opera del Creatore, e di meritare quindi  la punizione che ne consegue per tanto ardire.

In questo senso però il Renoir “illuminato”, già autore di un capolavoro razionale come La grande illusione, non poteva essere rigidamente bigotto e meschino nemmeno in tale considerazione conclusiva molto “cattolicheggiante”, ed è proprio al fine di smascherarne l’ipocrisia di fondo che il regista utilizza l’arma sottile dell’ironia e del non conformismo: la sua simpatia è infatti tutta per il “malvagio” Opale (come emerge chiaramente nella scena finale), e non certamente per il  “rispettabile” Cordelier di cui sottolinea anzitutto l’immonda, insopportabile ipocrisia (e l’aver risolto proprio in cadenze di pantomima il malefico “doppio” del dottore, non deve essere interpretato come un semplice e divertito escamotage utilizzato soprattutto in chiave figurativa, perchè ha invece una precisa corrispondenza anche etica e metaforica).

Il modo in cui il monumentale Barrault/Opale evidenzia l’emancipazione di colui che viene definito “mostro” dalle regole convenzionali del perbenismo, si esplicita attraverso inquietanti passi di danza e in una frenesia pantomimica quasi da balletto che non manca di ironia sconfinando persino leggermente nel grottesco, che si contrappone, con dirompente potenza anche visiva, alla seriosa, conformizzata figura di un Cordelier dai capelli artificiosamente acconciati, il freddo sguardo severo e la scostante voce metallica, per il quale non riusciamo a provare un minimo di pietà o anche semplicemente di comprensione (magnifica, come si è visto la prova dell’attore). Nasce così il raffronto fra il simbolo di una  libertà proibita (la costante persecuzione censoria dei propri istinti più belluini, che si estrinseca poi in una ribellione non tanto verso le strutture, quanto verso la retorica di una società composta da mamme, mutilati, bambine capricciose e vecchi funzionari catarrosi, che sono poi le effettive prime “vittime” anche materiali di Opale) che, come si è già visto, è antitetico a quello dell’essere invece prigionieri (in)consapevoli dentro una pseudo-rispettabilità più che accettata, opportunamente “subita” (la crudeltà mentale e il vizio congenito del distinto professionista, medico di fiducia dell’alta società, ed esemplare e attento curatore  dei loro immaginari affanni e mali).

A fare la differenza è dunque proprio la simpatia che suscita Opale, questo mostro più sgraziato che deforme, che sguazza in abiti troppo grandi per lui, costretto a fumare spasmodicamente sigarette su sigarette e a muoversi  ondulante, facendo ruotare l’immancabile bastone col pomo d’avorio,  un buffo, realistico ed “istintivo” individuo che se ne frega del rispetto di ciò che è lecito (e anche noi spettatori, coscienti, non possiamo che sentirci “dalla sua parte” come già il regista).

Giunti così  alla fine della vicenda, con un Opale angosciato – in contraddizione  con la sua natura  e quindi già in qualche modo a sua volta resosi più “umano” per questa sofferenza interiorizzata – che non esita di trasformarsi per l’ultima volta  in Cordelier pur di dimostrare  senza alcuna possibilità di equivoco l’autenticità del suo dramma, non ci si abbandona a un  sospiro di sollievo  come quando il consueto vampiro viene trafitto nel cuore  da un cuneo di legno, ma si resta  a meditare sulla morale, ma quella autentica che davvero se ne può trarre (ciascuno a suo modo) non certamente quella posticcia stratificata dalle convenzioni.

Sul piano del linguaggio poi l’opera raggiunge una sua straordinaria peculiarità bilanciata  che non rinnega nessuna delle “teoriche del cinema”, le adegua soltanto e le rende “compatibili” (e noi lo abbiamo potuto toccare con mano, poiché in Italia a suo tempo la pellicola, sia pure ribattezzata Il testamento del mostro, forse con l’intento di suscitare qualche discutibilissimo  fremito orrorifico in più, fu programmata senza assolutamente sfigurare e far percepire la sua destinazione originaria, nel normale circuito delle sale, anche se buttata allo sbaraglio nella stanca stagione estiva di “sali” o dei  “fondi du magazzino” che dir si voglia): il piccolo schermo avrebbe potuto infatti invogliare il regista ad abbondare nei primi piani (in genere è così che so fa no? è anche molto più semplice e meno costoso), mentre invece mai come in questo caso, le inquadrature ravvicinate sono una vera e propria rarità, così come sono pressoché assenti i dettagli  dei volti,  a tutto vantaggio dei piani americani e delle figure intere. Si potrebbe dire che  risalendo a volte da un particolare anche secondario per arrivare poi direttamente “all’insieme”, Renoir muove  i suoi personaggi come su un palcoscenico immaginario, li fa entrare, uscire, accostarsi, allontanarsi, e li segue come meglio non sarebbe possibile fare, sempre premuroso e attento, quasi “accarezzandoli” con la duttilità delle cinque telecamere a sua disposizione (del resto non aveva forse dichiarato che la macchina da presa deve avere un solo diritto,  quello di registrare unicamente ciò che avviene?).

Gioca semmai di più sull’illuminazione limitando i chiaroscuri, rendendola così meno sfumata e ombreggiata, decisamente molto più adatta alle ridotte dimensioni dello schermo televisivo che non sarebbe stato in grado di restituire pienamente certi preziosismi figurativi. 

Sulla trama

Il notaio Joly sta esaminando il testamento  del suo amico Cordelier, neurologo di chiara fama che da tempo si dedica a strane ricerche.
In tale testamento che lo stesso Cordelier gli ha consegnato con molta circospezione, c’è scritto che alla sua morte tutti i suoi beni dovranno andare a un certo signor Opale.
Quella stesa sera però  accade anche un fatto inquietante: il notaio scorge  un essere deforme che tenta di strangolare una bambina e che, messo in fuga dal suo intervento, si nasconde proprio nella casa di Cordelier. Joly scopre così che costui ha la chiave della casa: è certamente Opale. Mette allora in guardia l’amico, ma questi si mostra sempre più vago. Cordelier ha poi un aspro diverbio con il collega  Séverin che non crede nelle ricerche che sta conducendo. Lo sfida a partecipare  all’ultimo esperimento e il povero Séverin ne muore.
Una sera Joly accorre nella casa di Cordelier richiamato da grida orrende, e là vi trova Opale. Cordelier è costretto ad ammettere quel che l’amico ha già intuito, e gli parla così di una pozione con cui riesce a scatenare la sua natura animale e a trasformarsi  in Opale.. poi per dimostrare la veridicità di ciò che sta asserendo, ingerisce un antidoto che….
 

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