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Una vampata d'amore

Regia di Ingmar Bergman vedi scheda film

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Questo testo contiene anticipazioni sulla trama.

La recensione su Una vampata d'amore

di ed wood
8 stelle

Con questo ed altri film dei primi anni 50, Bergman fa le prove generali per i suoi futuri capolavori, dopo una prima fase (fine anni 40) di apprendistato, fra gli estremi del nascente neorealismo e del consolidato espressionismo. "Vampata d'amore" è già un grande film: dei capisaldi bergmaniani degli anni successivi manca solo la compattezza e la tensione dialettica, non certo la lucidità di sguardo nè quell'acre e disperato sentimento di lotta impari contro un nichilismo ateo che si manifesta come scelta obbligata per sopravvivere. C'è già, ampiamente trattato nella filmografia del Maestro svedese, il tema della finzione, della rappresentazione, della menzogna come regola di comportamento: la vita come assurda sceneggiata, le persone come marionette di sè stessi, delle loro fragilità. "Col teatro si mette in gioco la vanità, col circo la vita"; per il resto non c'è differenza fra attori e pagliacci. Tutti mentono, tutti barano, tutti si predono gioco dei sentimenti altrui, in nome di un egoismo identificato da Bergman come malattia cosmica che conduce alla solitudine. Non solo: l'egoismo, che si infligge alle persone più care per mezzo di maschere e false illusioni, porta paradossalmente alla perdità di identità, poichè ciascuno di noi "è" in base alla stabilità e alla trasparenza del proprio rapporto con gli altri. L'egoismo, dettato dall'impulso, porta dunque al caos, all'abbandono, allo spaesamento di fronte ad un Dio silente. "Vampata d'amore" soffre apparentemente di una struttura drammaturgica poco compatta, ma in realtà al Bergman di quel periodo piaceva sperimentare sulla forma narrativa. Ed ecco che troviamo, qui come in altre sue opere di quell'epoca, uno schema a "doppia coppia" (la giovane tormentata e l'attore mellifluo, incrociati col vecchio burbero e la donna matura che ha abbandonato la passione per vivere "in pace e tranquillità") impreziosito da un memorabile prologo-flashback, dal sapore onirico e dalle cadenze da film muto, una delle pagine più intense, strazianti e visionarie di tutto il cinema bergmaniano. Il senso della vergogna, del sentirsi "nudi" e "colpevoli" di fronte ad una folla vorace, oggetti di uno spettacolo deprimente, ma anche l'impotenza del proprio lamento (le urla di Alma e Frost rimangono afone, mentre le risate della massa risuonano senza sosta: geniale uso del sonoro) vengono rappresentati, in quella lunga sequenza, col massimo della potenza espressiva da un Bergman già sicuro di sè. Quel prologo dà il tono al film e pone, sin dal principio, i personaggi sotto un'occhio impietoso. Tutto lo sviluppo del film è ricco di intriganti trovate registiche, con giochi di specchi e altri espedienti che caricano l'inquadratura di una vasta complessità simbolica. La parte finale invece è degna di Fellini, per tutta una serie di motivi: l'amaro esistenzialismo di fondo pervaso dalla Morte; la vita sempre più simile ad un teatro (la minaccia di suicidio di Albert, rappresentata come fosse una tragedia scespiriana), ma anche il teatro/circo/finzione che subisce l'irruzione della vita e dei sentimenti più genuini (il duello per amore ed onore fra Albert e Frans); il ritorno alla situazione di partenza, con la necessaria accettazione di tutto ciò che esiste. Ma l'umore trasognato di Fellini è corrotto dalla ferocia di ciò che l'uomo è capace di fare, come uccidere un povero orso per sublimare il proprio inguaribile nichilismo.

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