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Una donna sposata

Regia di Jean-Luc Godard vedi scheda film

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La recensione su Una donna sposata

di spopola
8 stelle

Une femme mariée muove la sua analisi sulla società attraverso l’osservazione di personaggi precisi, “intelligenti”, perfettamente definiti, prodotti e produttori di un consapevole e costante lavoro di aggiornamento mentale che determina una modifica sostanziale della visione della realtà quanto mai necessaria ed opportuna.

Questo film è una specie di “depliant” sulla donna. (…) Io non invento niente, compilo dei prospetti. Dico: ecco come si compone una donna e la mostro in  “pezzi staccati”. Una macchina elettronica avrebbe potuto benissimo registrare questi diversi elementi e fornire la sua risposta, cioè la sua sceneggiatura costruita secondo una certa logica, come ho fatto io. Ho lavorato da etnologo: come Lévi-Strauss avrebbe potuto dar l’idea della donna in una società primitiva del Borneo, così io ho cercato di dare l’idea della donna in una società primitiva come quella del 1964.

Così si è espresso a suo tempo Jen-Luc Godard riferendosi a La femme mariée, distribuito però con il titolo cambiato in Une femme mariée, poiché la censura, per dare il nulla osta, pretese il cambio dell’articolo, modificando così sostanzialmente  il senso di un’opera che intende essere (e ci riesce benissimo: basta vederla, per comprenderlo) non un racconto su un personaggio immaginario e generico (su una donna), ma bensì un discorso ben articolato su una precisa e “specifica” componente della struttura sociale  (la donna, appunto).

 

Semplificando si potrebbe dire allora che Une femme mariée è  il ritratto, per frammenti, di una  figura femminile indecisa tra marito e amante, la riproposizione cioè del classico triangolo borghese, ricostruito per altro “apparentemente” in maniera abbastanza convenzionale, ma per poterci poi intervenire sopra e “intorno”  destrutturandone il senso, frantumandolo e adattandolo alle esigenze di un discorso molto più ampio e articolato, perché come sempre in Godard, è poi la “forma” che conta, quella che differenzia il suo cinema da ogni altra esperienza, con il suo modo speciale di organizzare situazioni, suoni, immagini e parole attraverso un montaggio ardito e personalissimo, capace di spiazzare ancora oggi.

 

Il film, dopo la prima didascalia: “Frammenti di un film girato nel 1964”, si apre su una serie di inquadrature “spezzettate” di una scena d’amore rappresentata attraverso l’evidenziazione di elementi staccati, se non del tutto eterogenei: una mano di Charlotte che scivola sopra il lenzuolo fino a raggiungere quella dell’uomo che le sta accanto, il suo amante; le spalle; il volto; la schiena; le gambe; una carezza; un bacio sulla mano…

Anche il dialogo è ricondotto a  “brandelli” isolati di pensieri e di parole che solo a tratti si incontrano, e più spesso si sovrappongono fra loro, come se ciascun personaggio seguisse il suo privato flusso di “memorie”:

-         Non so!

-         Non sai se mi ami?

-         Perché parli continuamente? Si sta così bene!

-         Che cos’hai là?

-         Oh! È quando ero piccola. Una volta in riva al mare sono caduta

-         In amore, alla fine, non si può andare troppo lontano

-         Come?… Non capisco!

-         Sì… si bacia qualcuno, lo si accarezza, ma alla fine, si resta al di fuori… E’ come una casa nella quale non si entra mai.

-         Ma ci si può fondere con qualcuno se lo si ama.

-         Sì, ma si è all’interno delle persone in altri momenti… quando non ci si pensa… quando è come una cosa da nulla…

Parole e frasi non sempre  strettamente collegate a ciò che le immagini raccontano, e  che alle volte si radicalizzando ancor di più  quando sono pronunciate da una voce “astratta” fuori campo, o si confondono con le didascalie:

Baciare.
Accarezzare.

Si resta in silenzio.

Era l’estate.

Forse ha dimenticato.

La gelosia.

Quando ritorna?

E’ carino, questo vestito.

Ve lo dico io.

E’ pericoloso.

Ma tu non mi ascolti.

La libertà.

Il piacere.

Non vedere niente.

Perché questa domanda?

Avevo paura di essere in ritardo.

La vita in genere.

Con una certa forzatura interpretativa, la storia messa in scena da Godard potrebbe allora emblematizzare in un certo senso  un’esperienza più vasta, tipica del dover agire tra diversi opposti poli.

Ma anche restando fermi alla semplice storia di Charlotte e dei suoi amori, è chiaro che dietro di essa si individua perfettamente quello che già allora era ciò che potremmo definire il punto di vista generale dell’autore sul mondo e sulle cose, perché nella secca costruzione di brevi capitoli, monologhi, parentesi (che è la struttura portante dell’opera), il regista rimane un vivido e critico testimone della società che rappresenta e che in qualche  maniera più che giudicare, stigmatizza.

C’è una scena folgorante sotto questo aspetto: il capitolo de “L’intelligenza”. E’ qui che Godard assegna a Roger Leenhardt (a sua volta regista e studioso assai apprezzato e vicino al gruppo di André Bazin sul quale lo stesso Bazin ebbe a scrivere sulla Revue  du Cinéma n° 14 del giugno del 1948: “Tout Leenhardt est dans cette voix intelligente et incisive que la mécanique du micro ne parvient jamais à corroder, tant elle s’identifie avec le mouvement même de l’esprit”) il compito di recitare un monologo molto significativo e importante: “E’ strano come certe parole, alle quali non si era data alcuna importanza quando si erano sentite, possano assumere, dopo un certo tempo un significato quasi centrale, e penso alla frase che mi aveva detto un amico, venticinque anni fa…, sì, eravamo nel ’40, in pieno sfacelo, a Vichy…Era un uomo di grande coraggio, spirituale, ed è stato uno dei primi della resistenza…, ma aveva voluto venire a Vichy, prima di prendere una decisione, per rendersi conto. “Vedi – mi diceva – prima di essere un uomo che afferma sono un uomo che capisce…” Bene, questo amico, che aveva un bel nome, Emmanuel, non mi rassomigliava per niente…, ma questo suo motto di spirito è diventato per me una specie di massima personale che dico per scherzo, ma che è in fondo – a mio avviso – la definizione più valida dell’intelligenza. L’intelligenza è capire prima di affermare. E’ cercare di andare più in fondo in un’idea,  cercarne i limiti,  cercarne il contrario… In conseguenza è, … è … comprendere gli altri. E tra noi e gli altri, tra il “pro” e il “contro”, di trovare a poco a poco una piccola strada… (…) e gli affida anche il ruolo più “politico” di  “osservatore critico” quando, di ritorno dalla Germania, impressionato per la persistenza di troppe scorie naziste riscontrate nella mentalità media della popolazione, in un incontro con Charlotte si rammarica per ciò che ha visto e sentito raccontando così la cosa: “Ho detto che in Germania metteranno di nuovo nei campi di concentramento gli ebrei e i parrucchieri e sa cosa mi hanno risposto? Perché mai i parrucchieri?”, con l’evidente scopo di ricevere consenso e solidarietà, che non arriverà però, poiché la donna risponde – indifferente – come se niente di tutto questo la riguardasse o la toccasse da vicino: “Già! Perché proprio i parrucchieri?”,  conferma evidente (e terrificante) nell’agghiacciante esattezza di una analisi portata alle estreme conseguenze, della necessità di Godard di esprimere, nella modernità del suo stile, anche un consapevole atteggiamento di impegno e di condanna, che non sarebbe poi mai venuto meno dentro al suo cinema (E’ un film umanista su un mondo non umanista quello che ho realizzato –  dichiarò ancora Godard - Il regista Leenhardt che ho fatto partecipare per parlare dell’intelligenza, rappresenta un umanesimo che purtroppo sta sparendo e che ho voluto denunicare).

 

Quello di Godard era dunque già allora un cinema  razionalmente moderno, aperto alla comprensione e alla definizione di una nostra realtà quotidiana del vissuto anche di coppia. E sempre più intelligentemente, il suo stile si andava via via affinando, spogliandosi progressivamente  delle  scorie di un certo letteralismo che – di derivazione camusiana – sicuramente ammantava di indifferenza i personaggi - eroi e non eroi - per esempio di À bout de souffle, la folgorante opera del suo esordio, confermando così la qualità anti-letteraria, e del tutto autonoma, della sua estetica filmica nel sostenere come elemento primario la validità  e l’importanza prioritaria del personaggio (e delle sue azioni)  come fonte di conoscenza di una realtà rappresentata nel suo immediato accadere.

In questa dimensione,  Une femme mariée muove la sua analisi sulla società attraverso l’osservazione e la conoscenza di personaggi precisi, “intelligenti”, perfettamente definiti, prodotti e produttori di un consapevole e costante lavoro di “aggiornamento” mentale per concorrere così a una modifica sostanziale della realtà (intesa come quella corrispondente agli anni in cui il film è stato concepito e girato) quanto mai necessaria ed opportuna. La sua è la scoperta (e riproposizione) di una dimensione critica  tenacemente legata a questa adesione razionale alle cose e alle persone, un rapportarsi al  “qui e ora” con il quale scandaglia le coscienze e i comportamenti (quasi una seduta cumulativa di Gestalt insomma, equamente divisa fra banalità quotidiane e situazioni più conflittuali di un “vissuto” concretamente reale).

Tutto il film si articola dunque intorno a dati di fatto concreti, a verità inconfutabili riscontrabili nella  società umana di riferimento, ed esprime la sua posizione attraverso una ricerca anche espositiva innovativa e modernissima, compiuta attraverso una precisa scelta stilistica e una ricerca accurata che opera nel presente o nella memoria, per ricostruire un puzzle in un concreto itinerario un po’ altalenante che cozza a volte con la nostra  logica, ma che alla fine si definisce perfettamente nella chiara esposizioni delle logiche comportamentali che stanno alla base del teorema che intende rappresentare.

Godard muove dunque le sue pedine verso un cinema per definizione di “tendenza”; conclude il suo discorso servendosi della logica, della chiarezza, operando una scelta di razionalità, perché i protagonisti di Une femme mariée – la moglie, il marito, l’amante -  hanno una connotazione  precisa, una rigorosa esattezza “calibrata” nella enunciazione del proprio carattere identificativo (sono insomma presentati con assoluta e sfaccettata precisione in ogni dettaglio e riflettono perfettamente il senso e i limiti di una condizione morale che li rappresenta e che li vincola, ma nella quale si riconoscono perfettamente).

Rappresentazione e realtà si saldano allora in un discorso spesso ellittico, fra riflessioni,  congetture e pensieri che si rincorrono, alla ricerca di una realtà apparentemente cangiante e un po’ camaleontica. Così la moglie nell’attenzione narcisistica per il suo corpo (in ogni rapporto sessuale il gesto dell’uomo è preceduto dal suo compiaciuto accarezzarsi), rappresenta il segno della moderna distrazione, inquietante malessere della società di quei tempi, mentre il marito, nella lucida, spietata analisi del tempo e della memoria,  è la perfetta conferma della capacità di distrarsi che è prerogativa umana indispensabile per una  condizione di paciosa, sopravvivenza un po’ passiva. Più problematica appare invece la figura dell’amante, di professione attore, e che si muove quindi sempre fra “realtà” e “rappresentazione” in un costante alternarsi di “presenza” e “disattenzione”.

Godard costruisce dunque questa volta una analisi sull’esistenza quotidiana della donna e della coppia, riproponendo il gioco un po’ compiaciuto e compiacente  tipico della commedia, ma impegnandosi nella ricerca di un linguaggio “rappresentativo” della storia  veramente innovativo, un obiettivo che consegue con assoluta precisione  proprio grazie a una  perfetta conoscenza dei mezzi espressivi che utilizza per la messa in scena di un film che intende riferirsi a una realtà individuata non più semplicemente attraverso le mediazioni del cinema o della letteratura (della rappresentazione fine a se stessa, in somma), ma bensì  utilizzando soprattutto le conoscenze e gli strumenti messi a disposizione dalle scienze sociali. E se la riflessione sul cinema continua anche questa volta, è comunque meno “nostalgia” di un universo codificato,  e sempre più ricerca (e lo sarà ancor di più in seguito) di come il cinema possa contribuire non a raccontare ed esporre, ma a ricodificare meglio i fatti e la realtà, secondo i canoni delle riprese dal vivo, e diventare così anche elemento “politico” di discussione e di intervento.

Di ottima levatura la prova degli interpreti tutti perfettamente a loro agio nei rispettivi ruoli: Macha Méril (la moglie), Bernard Nöel (l’amante) e Phlippe Leroy (il marito), e straordinario e  “contaminate” (come quasi sempre in Godard) il supporto musicale, che include vari estratti dai quartetti di Beethoven (i n. 7, 9, 10, 14 e 15), musica jazz di  Claude Nougaro e addirittura una canzone di Loudermilk, Aber e Morisse (Quand le film est triste) cantata da Silvie Vartan.

I riferimenti “culturali” disseminati nel percorso, sono poi molteplici e mai casuali: la “collaboratrice della casa”  interpretata da Rita Maiden (alla quale veniva riservato un lungo monologo ripreso  pari pari da Morte a credito,  poi eliminato in fase di montaggio definitivo) porta il nome di  “Madame Céline”,  e il rapporto “incidentale” è  già evidente (ma lo sarebbe stato molto di più se si fossero lasciate anche le frasi di Cèline che doveva pronunciare, rievocazione di un rapporto sessuale violento, gioisamente volgare e animalesco); l’appuntamento con l’amante è in un cinema dove si proietta Notte e nebbia  di Resnais; le conversazioni  in un albergo di Orly, poco prima che l’uomo parta in aereo per andare a recitare Bérénice, vertono proprio sul teatro ed i suoi riti).

Meglio tacere invece sulle molte  semplificazioni a suo tempo fatte da una certa critica che ha indotto spesso a confusioni anche ideologiche (la vecchia idea della misoginia e quella, solo apparentemente più aggiornata, della “donna-oggetto” godardiana). Sembrerebbe infatti che  questi signori abbiano voluto sposare “per partito preso” una tesi precostruita, dimenticando totalmente (e volutamente) che  le scene d’amore del film sono invece fra le più dolci e delicate mai rappresentate sullo schermo. Più giustificati semmai, anche se legati a una stagione di moda culturale specifica di quegli anni, gli accostamenti che proprio a partire da questo film si cominciarono a fare fra Godard e la pop-art, facendolo diventare per questo il regista “moderno” per antonomasia e quello stilisticamente più aggiornato, quasi lo specchio (ma anche il “prodotto”,  come affermarono prontamente i detrattori) della civiltà dei consumi, del neocapitalismo, dell’epoca insomma della “fine delle ideologie” (e possiamo affermare adesso che si sbagliavano di grosso, visto che Godard è stato invece l’unico a rimanere fedele alla sua etica, pervicacemente attaccato a uno sperimentale stile di ricerca formale e ideologico mai tradito e al di fuori dalle logiche  commerciali del consumo e del mercato che sembrano non riguardarlo e alle quali è sempre di più estraneo e combattivamente oppositivo).

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