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Duelle

Regia di Jacques Rivette vedi scheda film

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La recensione su Duelle

di Aquilant
8 stelle

La musica cessa di colpo, qualcosa di strano si avverte nell'aria. Stacco.
La bionda Viva, appena arrivata, fissa una presenza inquietante all’angolo opposto del salone. Stacco.
La bruna Leni dall’altro lato scruta la rivale in nervoso silenzio aspirando lentamente il fumo di una sigaretta. Stacco.
La ragazza in primissimo piano sul lato sinistro dello schermo, quasi presa alla sprovvista dalla mdp, si ritrae timorosa, presagendo vento di tempesta. Stacco.
La ticket girl come spuntata dal nulla incede decisamente in direzione della macchina da presa quasi a dar vita ad uno sguardo in soggettiva mentre come per incanto la musica rompe il fitto silenzio riappropriandosi del controllo del salone, più chiassosa che mai. La vita riprende il suo corso. Il sangue ricomincia a scorrere nelle vene.
Nell’arco di una manciata di secondi Rivette pone tutte le sue carte in tavola, delinea chiaramente le psicologie individuali, mette in scena un dislocante gioco delle parti, scandaglia le strategie dei suoi personaggi preannunciando un duello finale che si rivelerà quasi come una beffa per lo spettatore poco avvezzo alle sue fuorvianti tematiche. Tutto questo dopo una prima parte prevalentemente preparatoria che già lascia intravedere una sottile ragnatela di intrighi tutti al femminile, in una messa in scena pullulante di misteri intravisti di riflesso, con una torbida luna a fare da comprimaria, velata da una sottile cortina di nebbia.
In “Duelle”, seconda parte di un progetto di quattro film dal titolo “Scene dalla vita parallela” (ma il primo è rimasta lettera morta) lo sguardo indagatore sul microcosmo umano si fa dunque sempre più acuto, più penetrante, deciso a travalicare i limiti imposti dalle capacità percettive individuali per penetrare, seppure di straforo, nel regno dell’ultrasensibile, impresa peraltro già arrischiata con esiti a senso unico alternato nella tragicomica piece “Celine e Julie vont en bateau”.
Quasi per contrasto, qui l’incedere registico appare più pacato, più riflessivo, molto attento ai minimi particolari rispetto all’opera sopra citata. La lentezza regna sovrana per lunghi tratti e balza agli occhi un (retro)gusto un po’ acidulo per un tipo di teatralità sempre più ammiccante che sarà poi portata alle estreme conseguenze nel deludente “Noroit”, evidenziata da una serie di riprese effettuate per lo più a camera fissa e da dialoghi di un’assoluta ermeticità da cui traspare una ben precisa intenzione di pervenire per gradi ad una rarefazione assoluta della materia filmica. E d’altra parte una certa essenzialità di base traspare principalmente dal rigore intellettualistico dei dialoghi e dalla sobrietà dei movimenti dei personaggi buttati sulla scacchiera filmica quasi con noncuranza, a recitare con sinistra consapevolezza i versi letali di un gioco esoterico che si viene pian piano delineando per gradi con inesorabile determinazione. Personaggi quasi rappresi in una dimensionalità aliena dove la forza fuorviante della parola tende a prevalere sull’incontrollata impulsività dell’azione.
Le eroine rivettiane sembrano scolpite in un unico grande blocco di ghiaccio (vedi ad esempio Morag in “Noroit”, Marianne in “La belle noiseuse” e Léo in “Merry go round”). Ricche di predeterminazione e di lucidità mentale, sempre pronte a fare sfoggio del loro sangue freddo nei momenti di più precario equilibrio, ma incapaci di abbandonarsi completamente alla malia dei sentimenti, si offrono per l’appunto sullo schermo in tutta la loro bellezza e scontrosità, senza la minima ombra di generosa partecipazione, in quella loro presenza impantanata nell’ambigua autoreferenzialità di dialoghi e movenze che sembrano non condurre da nessuna parte, ma che invece risultano parte integrante di un meccanismo narrativo che scorre inesorabilmente verso un inesorabile epilogo quasi spiazzante nella sua lucida coerenza e tutto calato in un silenzio di tomba. Esatta antitesi, in altre parole, delle tonitruanti rese dei conti con tanto di “deguello” di un certo cinema tradizionale, sfortunatamente duro a morire.

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