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I cugini

Regia di Claude Chabrol vedi scheda film

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La recensione su I cugini

di spopola
6 stelle

Come già nella sua opera d’esordio Chabrol inserisce anche qui evidenti riferimenti iconografici mutuati dal cinema di Hitchcock che rimarrà sempre il nome più attinente anche per i successivi sviluppi della sua carriera di autore. Qui la contrapposizione è fra due personalità divergenti, due cugini, così diversi da risultare persino incompatibili.

L’anno è il 1958, e questa è la seconda prova registica di Claude Chabrol, dopo la quasi contemporanea pellicola d’esordio (“Le beau Serge”) con la quale condivide persino i due interpreti principali (Gérard Blain e Jean-Claude Brialy). Entrambi i titoli fanno infatti parte del novero di pellicole alle quali si ascrivono i meriti della nascita della Nouvelle Vague (Truffaut, Godard and company sono i compagni di viaggio di questa straordinaria avventura che ha segnato positivamente la storia del cinema francese della seconda metà del secolo scorso, i cui echi non si sono ancora del tutto dissolti). La ventata innovativa (meno “travolgente” che altrove in questo Chabrol prima maniera) si avverte precipuamente anche qui, poiché rimane comunque uno dei titoli maggiormente “celebrati” del periodo. Più “aderente” ai problemi della contemporaneità la tematica, svecchiato lo stile e l’impatto, lucido e coerente il disegno e lo scavo delle psicologie e soprattutto meno reverenzialità “accademica”: tutto questo è in ogni caso adeguatamente riscontrabile anche se in maniera meno dirompente rispetto ad altri esordi ugualmente significativi (ed anche di più) di quegli anni. Nuova “corrente”, dunque, un “vangelo” teorico che trae origine da una critica militante e attiva come mai era accaduto prima, ma stretta aderenza col passato (almeno come “sguardo” referenziale per quanto riguarda il “nostro”): come già nell’opera d’esordio, molti sono i riferimenti anche citazionismi riferiti soprattutto al cinema di Hitchcock, che rimarrà sempre e comunque il nome più attinente anche per gli straordinari e prolungati sviluppi della sua successiva carriera di autore (nel “Beau Serge” c’erano anche – evidentissime - “tracce” referenziali persino in direzione di Bresson). In entrambe le pellicole, la contrapposizione è fra due personalità divergenti utilizzate per discernere, vivisezionandole con meticolosa precisione, le differenziazioni morali – e anche per certi versi sociologiche – riscontrabili nella cultura borghese in via di progressivo imbastardimento, un degrado che già in quegli anni era fortemente avvertibile come una pericolosa tendenza). I protagonisti sono questa volta due cugini, così diversi da risultare persino incompatibili e lo studio è quello della accesa rivalità fra due opposti estremi: da un lato, il timido, riservato, “secchione” (inteso come dedito allo studio quale priorità assoluta della sua esistenza) Charles (Gérard Blain); dall’altro il dissoluto, smaliziato e “gaudente” Paul (Jean–Claude Brialy) che si comporta come se fosse un essere superiore alle comuni leggi morali, fregandosene di tutto e di tutti. Charles, giunto a Parigi dalla provincia per portare a termine il suo produttivo percorso di studi, verrà ospitato in quella città proprio nell’appartamento del più ricco cugino Paul (cinico ed estetizzante personaggio davvero singolare, sempre contornato da balordi d’ogni sorta e da una folta schiera di ragazze molto “disponibili” e carine). Come prevedibile, Charles subirà il perverso e accattivante fascino della disinvolta “temerarietà del cugino, fino a lasciarsi coinvolgere e risucchiare nella sua stessa vita. Finirà infatti per innamorarsi di una delle più affascinanti ragazze del gruppo che “animano” vivacemente con la loro disinibita presenza la vita della casa, anche lei studentessa (e non ancora completamente “corrotta” dalla dissoluzione di quell’esistenza un po’ allo sbando). Si insinuerà però nella storia un terzo, stravagante e subdolo individuo, tale Clovis, che porterà lo scompiglio e determinerà così l’inevitabile “tragedia catartica”. Charles infatti uscirà praticamente distrutto da questa esperienza traumatica, disilluso e perdente, che lo avrà portato a fallire anche negli studi, tanto da immaginare seriamente l’ipotesi del suicidio. Le cose non andranno però così, anche se la conclusione risulterà ugualmente, ma molto più casualmente funesta (e mi fermo qui per non svelare proprio ciò che è bene acquisire dalla visione dell’opera). Si potrà rilevare come praticamente è proprio l’appartamento “maledetto” di Paul il fulcro dell’azione, dove tutto si svolge e si “consuma” (come in un parallelo “ideale” con ciò che accade in “The Rope” del grande Alfred). L’opera è stimolante (forse adesso un tantino datata) e si conferma certamente anche adesso, come il miglior risultato raggiunto dal regista in quella fase iniziale della sua carriera. Forse un po’ troppo “dimostrativo” lo svolgimento necessario ad illustrare la tesi che il regista intendeva rappresentare e che fa apparire per alcuni versi persino un po’ pretestuosi alcuni momenti topici dell’azione, nella esasperata esposizione della ingenuità assoluta del “buono” e della sottile e prevaricante, sotterranea malvagità di colui al quale si è assegnato il ruolo del “cattivo” che deve incarnare anche suo malgrado, fino in fondo, complici casualità e leggerezza. Nel suo piccolo allora anche “I cugini” (vincitore del massimo premio – l’Orso d’oro - al Festival cinematografico di Berlino di quell’anno) è opera di demistificazione che vuole stigmatizzare molte più cose di quante ne possono apparire in superficie a una lettura affrettata. In quest’ottica, potremo forse “leggere” allora come la manifestazione - sia pure parziale e limitata – di una malattia che già allora appariva come una minaccia per l’intera società e che avrà poi lentamente esisti disastrosi, non solo ciò che rappresenta il futile esteta, ma anche quello che incarna l’odioso ruffiano e persino le “facili” donne che li circondano. Non dobbiamo dimenticare che quelli erano anni molto particolari per la Francia a causa della guerra d’Algeria che insanguinava le coscienze, un periodo pieno di conflitti e lacerazioni, che lasciava però ben avvertire sottotraccia proprio il riemergere di un nuovo ma non differente “spirito fascista” che assumeva nuovi connotati di decenza solo esteriore e che con diversi appellativi, cercava di nuovo di riprendere il sopravvento sulle coscienze “civili” (fra i personaggi che animano la corte al seguito di Paul, ce n’è anche uno che ha connotati di dichiarato neonazismo che tanto fecero discutere all’epoca). Dobbiamo allora riconoscere al regista il merito di questa visione, e l’onestà degli intenti, anche se una analisi complessiva del risultato, ci fa chiaramente intendere che non tutti gli obiettivi sono poi stati raggiunti all’atto pratico con la necessaria lucidità. Perché davvero, qui non ci sono “eroi” completamente positivi e persino la disponibilità sentimentale di Charles è esaminata con occhio ipercritico: non è un “umiliato e offeso”, non un escluso per casta, ma bensì a sua volta un figlio della classe dominante che usufruisce proprio per questo, al pari del cugino, di tutti i privilegi di tale ceto egemone. La sua sconfitta non è dovuta quindi a una “differenza di condizione”, deriva semplicemente da una congenita debolezza caratteriale spinta alle estreme conseguenze, persino da una attrazione fortemente masochistica verso la sconfitta che gli impedisce persino di “combattere” per imporre i propri bisogni, le proprie idee. Gli attori assecondano perfettamente il disegno registico, tutti ben caratterizzati nei loro ruoli “emblematici”, dal patetico, fiero e debole ritratto di un Charles così discutibilmente “arrendevole e coercibile” da fare a volte persino rabbia più che suscitare comprensione, disegnato da Gérard Blain , all’incisività strafottente e un po’ sulfurea di uno straordinario Brialy che ben si contrappone con analogo “peso” sull’altro piatto della bilancia. Accanto a loro, Guy Decomble, Corrado Guarducci, Claude Cerval, più una splendente Juliette Mayniel futura compagna di Vittorio Gassman e madre di Alessandro, e una giovanissima Stéphane Audran

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