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Nói Albinói

Regia di Dagur Kári vedi scheda film

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La recensione su Nói Albinói

di OGM
8 stelle

L’esistenza del giovane Nói è una nicchia scavata in mezzo ai ghiacci: la sua silenziosa stravaganza è solo la disperata ricerca di un calore segreto dentro la grigia freddezza della normalità. La realtà della provincia islandese è improntata ad un’essenzialità asfissiante, che è come una serra in cui si coltivano le manie e le ossessioni, mentre le emozioni soffocano nell’aria rarefatta e gelida. La fuga del protagonista è un girovagare senza meta e la sua evasione un trastullo inconsistente, perché nulle sono le alternative offerte da una terra arida, priva di colori e di ogni fantasia, in cui né il suolo né la mente umana può creare alcunché. Non c’è spazio per avventure che possano suscitare brividi diversi da quelli dell’inverno, e tutto naufraga nella solita tristezza, come un corpo che cade, con un tonfo sordo, dentro un cumulo di neve.   La vera vita è altrove, ma tutti, tranne Nói, si rifiutano di ammetterlo; egli è l’unico ad avere il coraggio di guardare oltre, di ipotizzare un futuro fuori dall’orizzonte cieco di un’isola dimenticata e senza speranza. Il suo rifugio sotterraneo è una sorta di avamposto sul resto del mondo, quello in cui accadono le cose, si può avere paura e ci si può stupire, e ci si può amare fuori dalle case-prigione in cui il clima polare costringe gli uomini a restare chiusi. Nói appare come un disadattato, perché il suo pensiero vola al di sopra delle altre teste, di coloro che vivono ancorati alla rassegnazione dei giorni sempre uguali, e delle primitive logiche dell’abitudine e dell’evidenza. In un luogo in cui non esistono la varietà ed il movimento, e non è quindi data l’occasione di confrontarsi col nuovo e col diverso, vengono a mancare gli stimoli all’immaginazione, che dunque langue, afflosciandosi sul dato concreto ed immediato;  ciò che distingue il protagonista, facendolo talvolta sembrare un genio, è la semplice capacità di astrarre, di percepire o costruire mentalmente ciò che non si vede,  e di ragionare in maniera autonoma, e fuori dagli schemi. Egli si sottrae, con la leggerezza della libertà (che gli altri scambiano per indifferenza) al peso mortale della noia, dell’inquadramento dentro i percorsi obbligati della quotidianità, in cui ogni guizzo dello spirito è bandito ed accolto con sospetto. Nessuno degli abitanti del paesino nordico si accorge del carico di morte che grava sulle loro vite, che le schiaccia fino ad annientarle: una catastrofe da cui solo il presunto “scemo del villaggio” riuscirà a salvarsi.
Nói Albinói è un poema dell’immutabilità che fa da preludio a una tragedia: ad operare la catarsi è la natura stessa,  che scatena la sua forza per reagire ad un’inerzia a cui l’uomo non ha saputo, né voluto, ribellarsi in tempo.   

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