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Non aprite quella porta

Regia di Marcus Nispel vedi scheda film

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La recensione su Non aprite quella porta

di scapigliato
8 stelle

A dieci anni di distanza dall'ultimo capito della saga battezzata da Tobe Hooper nel 1974 torna il mostro dalla faccia di cuoio, l'assassino della motosega, Leatherface. Il lavoro di Marcus Nispel al suo esordio nel lungometraggio non passa inosservato. Siamo comunque in una contingenza produttiva in cui l'horror si rifà il look, diventa ben più commerciale e consumistico della sua naturale vocazione intrattenitrice, arriva patinato sui grandi schermi e l'indicibile viene sterilizzato dall'estetica torture in cui la pornografia di sangue e frattaglie anestetizza il perturbante. Di conseguenza, anche il lavoro di Nispel, pur brillando per questioni sue specifiche, si accora al resto delle produzioni horror del nuovo millennio senza apportare nulla di nuovo alla discussione sul genere.

Il film ripercorre il canovaccio classico dell'archetipo hooperiano, come un po' tutti i film dal quarto capitolo in poi, e suggestiona la narrazione con nuovi accorgimenti sia estetici che formali, sia narrativi che figurativi. L'incipit ricorda molto da vicino il prototipo del '74, ma al pazzo autostoppista/autolesionista che i ragazzi caricano sul loro furgoncino, Nispel preferisce una ragazzina sopravvissuta a una precedente mattanza. Ciò che non cambia è il valore narrativo del personaggio che funge da dispositivo orrorifico e getta i personaggi nella spirale di incubo e violenza da cui non usciranno vivi. Per il resto, la pellicola inscena le morti il più crudelmente possibile cercando di avvicinarsi alla perturbazione del primo capitolo. Inanella qualche scena azzeccata – su tutte la gambizzazione del povero beefcake Mike Vogel – giocando molto sull'impatto estetico che il produttore Michael Bay ha ereditato da Tony Scott, senza per questo uguagliarlo, e va di accumulo con un'iconografia sporca, marcia, pestilenziale, fatta di case sporche, mattatoi abbandonati, carcasse di vecchie macchine, una natura corrotta dall'incuria e dal clima intollerante. È quindi, formalmente parlando, un film che si propone di rivitalizzare il mito – perchè ormai di mito si tratta – attraverso l'estetica orrorifica dei reboot neo-generazionali in cui c'è fin troppo posto per i dettagli e le truculenze senza dotarle del perturbante che spetterebbe loro.

Il film ha il pregio di coinvolgere tra gli interpreti un certo Ronald Lee Ermey la cui presenza scenica è indiscutibile e apporta al mito di Faccia di Cuoio un'insana inclinatura triviale, sboccata, ma genuinamente divertente, con cui il reboot riesce a distinguersi nello stantio panorama horror contemporaneo. È un personaggio importante il suo sceriffo Hoyt – che come si scoprirà nel prequel del 2006 a firma di Liebesman non è il suo vero nome – ed è il personaggio cardine intorno a cui ruota tutto l'impianto narrativo, ancor più di Leatherface stesso. Il vero cattivo del nuovo franchise è lo Sceriffo Hoyt/Uncle Charlie Hewitt e non il mostruoso assassino nato dal genio creativo di Tobe Hooper. Rozzo, grezzo, sboccato, laido, immensamente ignorante, puro redneck, Uncle o Pa' o Bro' Hewitt – inutile indagare le parentele in questo groviglio di incesti – è l'apice dell'incontinenza violenta e rabbiosa di tutto un paese. L'attore, nominato ai Globes per Full Metal Jacket (1987), sfoggia una gigionesca freschezza nel mettere in scena il suo squallido rifiuto umano. Il suo personaggio ntra in contatto con tutti i giovani malcapitati, li raggira, li sevizia psicologimante e abusa di una divisa di polizia che funge da maschera carnevalesca deformando la figura dell'uomo di legge in uno psicopatico selvaggio. Uno dei suoi personaggi più riusciti, anche grazie alla tipologia di ruolo istrionesca che facilita la caratterizzazione.

Un dettaglio che va evidenziato è il nome della famiglia degli assassini. Nell'originale di Tobe Hooper non venivano fatti nomi precisi, ma nel secondo capitolo, sempre a firma dello stesso regista, viene fatto il nome dei Sawyer, e così fino al quarto capitolo. Con questo reboot i Sawyer diventano Hewitt, e perdono quindi il diretto legame con la famiglia cannibale del mito originario oltre che perdere quel gioco decostruzionista tipico di Hooper per cui "Sawyer", e quindi i degenerati assassini e il mostruoso Letherface, si legava esplicitamente con Tom Sawyer, il buono, o meglio buonista, eroico e disciplinato bambino modello della naziona americana, di cui l'autore Mark Twain propose poi la figura oppositiva di Huck Finn, di più gran successo. Questo aiuta a leggere l'archetipo hooperiano come distorsione dei miti fondativi dell'America, mentre in Nispel il gioco si perde e il film da politico diventa semplicemente un divertissement horror, ben girato, preciso nel ritmo e puntuale nella modulazione dei topoi del genere come di quelli ripresi dalla pellicola di partenza.

 

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