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El Cochecito

Regia di Marco Ferreri vedi scheda film

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Questo testo contiene anticipazioni sulla trama.

La recensione su El Cochecito

di omero sala
8 stelle

 

Ferreri nasce a Milano nel 1928. Dopo aver abbandonato l’università (veterinaria) tenta di entrare nel mondo del cinema come soggettista e lavora come comparsa in due film di Alberto Lattuada (Il cappotto, del 1952, e La spiaggia del 1953); nel 1958, a trent’anni, parte per la Spagna (ancora franchista) come rappresentante di una ditta di obiettivi. A Madrid conosce casualmente lo scrittore Rafael Azcona che scrive racconti e vuole entrare nel mondo del cinema come sceneggiatore.

Dalla loro alleanza nascono i soggetti - e la realizzazione - delle prime tre opere di Ferreri: El pisito (L’appartamento) del 1958, Los chicos (I ragazzi) del 1959 ed infine El cochecito (La carrozzella, intesa come sedia a rotelle) del 1960.

Tutti e tre i film raccontano da diversi punti di vista il disagio di una società impantanata nella dittatura franchista, anche se nessuno dei tre attacca direttamente il franchismo (la censura non lo avrebbe consentito).

Forse per questo (si sa che la censura aguzza l’ingegno) i tre film appaiono sottilmente eversivi, feroci dietro un’apparente leggerezza, disperati sotto la patina ridanciana della farsa.

Nel primo film - El pisito - si racconta la storia di una coppia di fidanzati che cerca - inutilmente - un appartamento per potersi maritare; non trovando nulla, la fidanzata convince il ragazzo a sposare una vecchietta per ereditarne l’appartamento ad affitto bloccato; ma la vecchietta non muore mai, ….

Nel secondo - Los chicos - si racconta la quotidianità di quattro ragazzi annoiati (come i vitelloni di Fellini, con qualche anno di meno) che non sanno cosa fare e si ritrovano ogni giorno nei pressi di un’edicola per chiacchierare e decidere come passare la giornata. Il film, una specie di documentario neorealista, benché meno corrosivo del primo, viene requisito dalla censura franchista.

 

Nel terzo film - El cochecito - l’attenzione (dopo i giovani fidanzati de El pisito e i ragazzi di strada de Los chicos) tratta della condizione senile.

La storia è esilarante: un ottantenne medio borghese, don Anselmo, desidera una moto-carrozzella pur non avendone necessità, perché si sente escluso dalla combriccola dei suoi amici che - invalidi, malmessi e più o meno paralitici - si spostano su sedie a rotelle.  Il simpatico vecchietto è ossessionato: nella sua lucida follia invidia i coetanei più fortunati perché menomati; partecipa alle loro scampagnate da emarginato, a causa delle sue gambe sane.

Per uscire dalla sua condizione di discriminato, le pensa tutte: prima tenta la carta della salute; ma il figlio, benestante avvocato della media borghesia, si rifiuta di cedere al capriccio del vecchio e, per contrastare le sue insistenze e dimostrare l’insensatezza delle sue pretese, lo sottopone a controlli medici, visite specialistiche ed esami che ne attestino le buone condizioni di salute fisica e di idoneità all’ambulazione.

Poi sottrae e vende i gioielli della moglie defunta e acquista la carrozzina, pagando l’anticipo. Ma il figlio lo sgama, gli requisisce il veicolo (che viene riportato in negozio); e davanti alle energiche proteste del vecchio genitore, minaccia di farlo interdire o di ricoverarlo in una residenza per anziani.

Infine, il testardo e inarrestabile Don Anselmo, ricorrerà ad un estremo macabro espediente.

La trama si snoda strampalata ed esilarante, assurda e allucinante ma credibilissima: anche lo spettatore - come don Anselmo - si convince che la salute, la non-invalidità è uno svantaggio sociale. E questo la dice lunga sulla solitudine esistenziale a cui ci costringe questa società efficientista e perversa, non solo sull’ isolamento a cui sono costretti gli anziani che vivono da invisibili in una condizione di abbandono deprimente che li porta a sognare universi paralleli.

Il ritmo, sia del montaggio che dei dialoghi, è serratissimo.

Il film risulta una satira funerea e impietosa, non solo della Spagna franchista.

È un potente apologo crudele sulla vecchiaia e sulla emarginazione.

(quella che si patisce nella famiglia, cellula prima di ghettizzazione sociale ed esistenziale), ma si rivela anche, a ben riflettere, una corrosiva satira (premonitrice) sulla ipocrisia della società dei consumi.

Ed è anche uno splendido preannuncio della carriera di Ferreri, regista eversivo, antiborghese e nichilista.

Non posso non ricordare e raccomandare la visione di tutti (TUTTI) i successivi film del geniale regista italiano che veicolano una esplosiva potenza eversiva, trasudano fiele anarchico, sono ferocemente surreali (Bunuel?), stralunati, grotteschi e densi di umore nero: si pensi a capolavori assoluti come L’ape regina (1963), La donna scimmia (1964), Marcia nuziale (1965), L’harem (1967), l’imperdibile Dillinger è morto (1968); e poi, a seguire, L’udienza (1971), La cagna (1972), La grande abbuffata (1973), Non toccare la donna bianca (1974), L'ultima donna, Ciao maschio, …

 

 

 

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