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L'avvocato De Gregorio

Regia di Pasquale Squitieri vedi scheda film

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La recensione su L'avvocato De Gregorio

di lamettrie
8 stelle

Un buon film, trascurato, rancido ma realistico, un po’ televisivo in certe rese, ma sicuramente di buon livello per la denuncia: che colpisce una materia, la camorra e le sue pratiche delinquenziali anche sul lavoro, che l’ormai 75 enne Squitieri mostra di conoscere come le sue tasche, da buon napoletano qual è.

Oggettivamente indimenticabile, e veritiero, è il quadro che l’avvocato compone di Napoli: a scrivere la sceneggiatura, come il soggetto, è proprio il regista. Il quale incornicia ciò all’interno dell’insabbiamento della morte di un giovane lavoratore padre di famiglia, che non è una semplice fatalità: ma il tentativo, riuscito, di mettere a tacere una sacrosanta denuncia, che si sarebbe avvalsa dei sindacati. Storie di morti bianche, ormai così frequenti, in un paese come il nostro sempre più abituato, almeno fino a due anni fa, a dover subire il lavoro nero, senza alternativa.  «Non avevo neppure il dubbio che fosse corrotto il giudice: è napoletano… appartiene al tessuto morale di questa società… una miscela che produce dolce rassegnazione… può darsi che (ciò) produca dei ribelli, ma il corpo li espelle, come fastidiose infezioni… non si può capire la morte di Lo Cascio, la prostituzione della moglie, la speculazione dell’impresa, il comportamento del magistrato, se non si comprende Napoli… altrove sono reati, qui sono tragedie».

La disamina continua inappuntabile: «Salari da fame… assenza di ogni garanzia… compromessi infiniti per sopravvivere»; «L'ingiustizia continuerà...il dolore si ripeterà come un ritornello... vincerà l'indifferenza». E finisce con una lapide che andava bene anche secoli fa, purtroppo: «Stiamo dalla parte dei giusti… ma non mi fate ridere, avvocato: stiamo dalla parte dei disgraziati»: di chi deve piegarsi a fare qualunque porcheria, pur di non morire.

Apprezzabile è la restituzione dei sotterfugi di inconfondibile sapore mediterraneo: i favori, piccoli e grandi, che si ottengono con la corruzione, do ut des; il protagonista che finge malore per avere passaggio dalla’ambulanza, al fine di andare in ospedale, dove deve andare per lavoro; l’efficace intimidazione della vittima, all’insegna della violenza di strada più cruda; la retorica dei doni alimentari, mai disinteressati; l’approssimazione nei patti sui soldi, che si danno solo per averne in cambio favori, più che il dovuto; il maresciallo che origlia alla porta; la confusione negli ambienti di giustizia.

Lo squallore del realismo sul mondo napoletano è azzeccato, come si vede nella descrizione di prostituzione, transessuali, case diroccate, combattimento fra i cani.

Grande Albertazzi: realistico nella parte dura del depresso fallito, che cerca e trova riscatto. Bene anche l’altro grande vecchio Ferzetti, ma anche molti altri, sebbene non tutti: il pubblico ministero ha una parte fondamentale, rispetto a cui proprio Ciro Capano non è all’altezza. Non male le musiche di Cecarelli, e le scene, verosimili tanto quanto impressionanti, di Crisanti.

Splendido il messaggio finale: lavoro come dignità, senza il quale non si è più uomini. Ma forse qui c’è anche un difetto: un po’ troppa utopia, nella speranza, poco credibile, che tutti vadano in tribunale a testimoniare, anche chi prima era paralizzato dalla paura e costretto alla classica omertà.

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