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El Bola

Regia di Achero Mañas vedi scheda film

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La recensione su El Bola

di OGM
8 stelle

Un film spagnolo, uscito nelle sale italiane nell’agosto di nove anni fa. E poi sparito dalla circolazione. Forse pochi lo hanno visto, eppure il tema trattato è uno di quelli di cui non si parla mai abbastanza. L’infanzia esposta alla violenza. Che è quella dei maltrattamenti fisici e psicologi di cui tanti bambini sono vittime all’interno delle loro famiglie, per mano di coloro che li dovrebbero curare e proteggere. Ma è anche quella del mondo, della vita in generale, che attacca con maggiore durezza i soggetti più fragili, infliggendo loro i colpi della malattia e del lutto, e anche proponendo modelli  di divertimento sbagliati, improntati alla ricerca di emozioni forti, come la paura di morire. Pablo, un ragazzino appena entrato nella delicata fase dell’adolescenza, prende parte, con gli amici, ad un gioco sinistramente perverso: una gara di velocità in cui si salta sopra le rotaie pochi secondi prima del passaggio di un treno.  Ma questo è solo l’aspetto più eclatante di un contesto sociale in cui sono l’adrenalina e la trasgressione a dominare la scena. Nella casa di Pablo, i cui genitori hanno perso un figlio prima che lui nascesse, il nervosismo degli adulti si trasmette a lui in tante forme: non solo, nel modo più drammatico, attraverso le percosse e le umiliazioni verbali che spesso riceve dal padre, ma anche in maniera più sottile, attraverso quell’atmosfera di oppressione a cui non può sottrarsi e di fronte alla quale cerca uno sfogo passandosi una bilia metallica in mezzo alle dita. Il maniacale attaccamento a quell’oggetto,  dal quale non si separa mai, gli è valso, nel quartiere, il soprannome di El Bola: il suo tratto distintivo è, in realtà, il sintomo di un animo sofferente, che si tiene tutto dentro, non sapendo a chi confidarsi. Alfredo, il suo nuovo compagno di scuola, che è figlio di un tatuatore, condivide con lui un mondo ben diverso da quello delle favole: una realtà non certo costruita a misura di bambino, dove i corpi si sottopongono a dolorose pratiche con gli aghi per farsi marchiare la pelle da figure mostruose. È come se la fiaba rimanesse eternamente ferma alla parte iniziale, quella in  cui di solito il male consegue la sua (temporanea) vittoria: così la morte non è seguita dalla risurrezione, il drago non viene sconfitto, il terrore rimane e si ripete all’infinito, come nel vertiginoso percorso di un otto volante. Non interviene una magia liberatoria a porre fine al sortilegio, e la tristezza, che si chiami incubo o disincanto, diventa la padrona incontrastata della situazione. Pablo, una volta all’anno, si deve vestire di nero e andare a visitare la tomba di un fratello mai conosciuto; Alfredo marina la scuola per andare a trovare  il suo padrino e lo trova  agonizzante in un letto di ospedale. Tutto ricorda l’onnipresenza di una minaccia che getta un’ombra sinistra sul futuro, precludendo, così pare, l’accesso alla felicità. La fantasia, nella mente dei ragazzi, si fa pesante, agganciandosi al cupo senso del proibito (sfogliare giornalini osé, entrare gratis al luna park, fumare durante la ricreazione, sfidare il pericolo) che non è la normale espressione della curiosità dei bambini o della loro fretta di crescere, perché, in effetti, non procura gioia, ma solo una momentanea sferzata di allegria rabbiosa, si direbbe strappata coi denti. Lo stesso amore, lungi dall’essere quel sentimento romantico che addolcisce il cuore ed alimenta i sogni,   è, molto più prosaicamente, un dio guerriero, un epico lottatore che si rivela solo alla fine, quando esce vincente da una battaglia aspramente combattuta giorno per giorno. José, il padre di Alfredo, con il cranio rasato e gli avambracci coperti di tatuaggi e, sulla bocca,quel duro linguaggio di periferia, è, in fondo, una figura militaresca, a cui la vena artistica sottrae soltanto quell’eccesso di rudezza che mal si concilierebbe con la sua natura di genitore premuroso e sensibile. Sarà lui a farsi carico del difficilissimo compito di salvare Pablo: una missione eroica, come tutte quelle compiute dalla gente comune, con pochi mezzi a portata di mano e, tutto intorno, un intero pianeta che non smette mai di girare.  

Il messaggio di questo film è forte, ma non  ha il suono grave di una denuncia, né il tono retorico di un’esortazione. Ha, invece, il respiro affannoso di una storia sofferta: il racconto di una condizione isolata e segreta, che non può gridare e si contorce, e intanto, per non farsi notare, si getta nella mischia, mescolandosi ai rumori e ai movimenti del mondo. Finché, paradossalmente, sono un’assenza ed un bisbiglio, capitati, all’improvviso, in mezzo al caos, a renderla evidente. 

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