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Il dottor Cyclops

Regia di Ernest B. Schoedsack vedi scheda film

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La recensione su Il dottor Cyclops

di spopola
8 stelle

Il regista è riuscito a riproporre con ineguagliabile maestria, la superlativa, inimitabile complessità del mito con lo stupore e l’attesa di chi indaga l’immaginario ma senza per questo dimenticare la dimensione della realtà, attraverso un “percorso creativo” coinvolgente e “assoluto” che potremo definire a pieno titolo con la parola “CINEMA”.

Dr. Cyclops del 1940 è il terzo capolavoro fantastico firmato da Eernest B. Schoedsack (il solo dei tre girato in “solitaria”) dopo l’inquietante “La pericolosa partita” del 1932 (fatica condivisa con Irvin Pichel) e lo straordinario King Kong del 1932 realizzato insieme a Merian C. Cooper, recentemente omaggiato con passione filologica, ma non eguagliato, nonostante le nuove frontiere della creatività computerizzata a disposizione (o molto più credibilmente proprio a causa di questo eccesso di tecnologismo che finisce per imbrigliare la fantasia), nell’impatto emotivo che l’inarrivabile capostipite riesce ancor oggi a suscitare con il suo perfetto mix di avventura, fiabesco, erotismo, paura e meraviglia. Meno significativamente “importante” (ma ugualmente sorprendente nel risultato) rispetto alle vertiginose vette delle due produzioni precedenti, Dr Cyclops rimane comunque una godibilissima, intelligente e travolgente escursione nell’impossibile che rende palpabili non solo le angosce, ma anche i nostri desideri (o i sogni) più profondi e inconfessati, e questo proprio in virtù di una esemplare trasposizione “visiva” di questo ennesimo “avventuroso viaggio” che utilizza avanguardistici ed “inconcepibili” (per l’epoca) trucchi ottici frutto dell’invenzione genialoide di Farciot Edouart (coadiuvato da Gordon Jennings), capaci anche nel nuovo millennio, di suscitare una immutata, incondizionata e riverente ammirazione per tanto ingegno creativo. Sicuramente una pellicola che ha anche il privilegio di rappresentare il primo (o uno dei primissimi) deliberato tentativo di impiegare il colore non come semplice elemento “abbellente”, ma per arrivare a una autoriale “esemplificazione visiva del terrore”. Il ritorno all’attività di Schoedsack dopo un lungo periodo di silenzio con questo ispirato “classico dell’orrore” è infatti prima di tutto un riuscito esperimento che tende a utilizzare le risorse accese e contrastate offerte dal Technicolor per raggiungere inusuali finalizzazioni espressive (qui è infatti il “verde”, nuance notoriamente associata alla “rappresentazione del senso di paura”, la tonalità che domina incontrastata e non solo nelle scene ambientate nella lussureggiante vegetazione della jungla - dove questo particolare cromatismo poteva persino risultare scontato e inevitabile - ma anche e soprattutto in tutte le sequenze della parte della parte iniziale girate nel laboratorio del pazzoide inventore, a partire dalla folgorante presentazione, una sequenza che rappresenta la sintesi di quanto sopra evidenziato: un laboratorio appunto soffuso da una pulsante luce verde che vede all’opera due uomini affaccendati intorno a un tavolo, uno – il dottore in questione – chino sul microscopio, dal cranio completamente calvo, un figura alta e prestante ma ambiguamente inquietante con i suoi occhiali minacciosi che rendono acquoso lo sguardo, e l’altro - l’assistente -, più dimesso e umanizzato, incapace di nascondere la sua impaurita sorpresa che anticipa la preoccupazione per le possibili apocalittiche conseguenze della “sorprendente” scoperta). La storia, basata sulla sceneggiatura originale di Tom Kilpatrick (poi trasformata in romanzo da Henry Kuttner) è di per sé abbastanza convenzionale e “cavalca” in qualche modo le paure della minaccia atomica già serpeggianti come si vede moti anni prima di Hiroshima: nelle montagne peruviane il Dottor Thorkel, uno scienziato fanatico ed esaltato, ha realizzato un laboratorio sperimentale in cui, utilizzando un deposito radioattivo locale e grazie a una serie di azzardati esperimenti che concretizzano il lavoro di anni di studi sulle possibilità dell’energia atomica, è riuscito a definire un “meccanismo” capace di miniaturizzare gli esseri viventi (significativa anticipazione di una tematica che sarà popi ripresa in maniera differente e ancor più inquietante nelle conclusioni da Arnold/Matheson nel loro superlativo “Radiazioni BX distruzione uomo” e successivamente banalizzata da una serie di incursioni solo “alimentari” che le nuove frontiere della tecnologia hanno reso ampiamente abbordabili per realizzare innocui fantasy in pretto stile Disney). Un gruppo di scienziati, andati alla sua ricerca, saranno prima imprigionati e poi ridotti alle microscopiche proporzioni dagli apparecchi del dottore folle, ma riusciranno ugualmente dopo estenuanti eventi e peripezie terrificanti, ad aver ragione di lui e a recuperare le proporzioni naturali “scongiurando il pericolo”. E’ quindi evidente ancora una volta che non è tanto importante “quel” che si racconta, ma “come” lo si racconta, e in questo caso è proprio il colore uno degli elementi determinanti a “fare la differenza” per il risultato complessivo, insieme ai “trucchi” delle miniaturizzazioni e alle sovrapposizioni delle immagini, praticamente perfette, che rappresentano davvero il “valore aggiunto” di tutta l’operazione… Risulterà allora sorprendente sapere che in Italia sembra che siano circolate “quasi esclusivamente” copie in bianco e nero che ovviamente ne hanno diminuito notevolmente il fascino dell’impatto. Dico “quasi esclusivamente” (anche se qualcuno asserisce che “le copie circolate in questo paese sono solo ed esclusivamente in bianco e nero”) perché io “sono invece certo” di averlo visionato almeno una volta (la prima) nella magniloquenza sfolgorante del colore cosa che contraddirebbe questo enunciato. Solo immaginazione la mia? Non posso davvero escluderlo a priori: potrebbe benissimo essere probabile una ipotesi del genere, visto che in quegli anni ero un ragazzino la cui fervida fantasia lo portava spesso a “vedere” (o a voler vedere) anche quello che non c’era, per esempio ciò che, pur tecnicamente assente, risultava egregiamente suggerito e sostenuto dai contrasti degradanti fra il nero e il bianco che sono a loro volta “colore” (semplicemente a titolo di esempio, io ho sempre percepito come realmente esibito sullo schermo il “rosso disturbante” del vestito di Jezebel nella famosissima, indimenticabile scena del ballo del capolavoro di Wiler con la superba e indomita Bette Davis, molto tempo prima che fossero passate in Tv le scipite colorazioni al computer che deturpavano snaturandolo, il “valore” fotografico e il fascino di un bianco e nero così denso di gradazioni da riuscire a rappresentare nella sua monocromia tutte le sfumature dell’iride). Ma davvero questa volta è così “vivo” e indelebile il ricordo di quei “verdi” intensi che credo proprio di non potermi sbagliare (le volte che l’ho rivisto successivamente, “so” che il tutto era “tragicamente” in bianco e nero… ma quella lontana volta a cavallo dei ’50 no, non poteva essere così, il colore c’era, ed era smagliante, ne sono sicuro. E’ per me ovviamente un nostalgico “tuffo nel passato e nella memoria” il ritornare a quei giorni e a quella visione lontana. Ricordo che era un sabato pomeriggio, e io ragazzino inquieto, accompagnavo spesso a Firenze la mamma, nella riconsegna al negozio committente, del suo lavoro di ricamatrice di biancheria intima puntualmente eseguito a domicilio. Passando davanti al cinema Apollo ( sala storica da tempo immemorabile ormai in abbandonato disuso) fui, come spesso accadeva in quel periodo “ammaliato” dalle immagini accattivanti delle locandine esposte che occhieggiavano dalle bacheche catturando prontamente la mia fantasia. C’era sufficiente tempo prima della partenza dell’ultimo autobus per avventurarsi nella visione di quella “invitante avventura”, e nonostante le resistenze della mamma, che riteneva inadeguato per la mia età un film così dichiaratamente “horror” riuscii con molte insistenti suppliche ad avere la meglio e a convincerla ad accompagnarmi in sala. Inutile dire.. che rimasi estasiato e turbato da quelle “gesta” impossibili che rendevano alieni ed infidi oggetti di uso comune come una scatola di cerini, o una tazza colma di acqua o un ditale e che trasformavano in presenze più terribili dei mostri preistorici, innocui amici domestici come il gatto improvvisamente lievitato a dimensioni inimmaginabili, o una galline starnazzanti che cercavano di “beccare” quelle microbiche presenze impaurite e fuggenti. I colori negligentemente perduti nei successivi “innamorati” recuperi nei cineclub dell’epoca (ma anche – se la memoria non mi inganna - in lontanissimi passaggi televisivi) quella volta erano “davvero” presenti con il loro ineguagliabile splendore: io li ho percepiti e memorizzati e non posso sbagliarmi. Ne sono assolutamente sicuro: io ho “goduto” almeno una volta – “quella” volta - di una visione che ritengo essere stata “integrale e conforme” all’originale concepito dall’autore (almeno mi piace immaginare e ricordare che le cose siano andate effettivamente così, concedetemi questo privilegio!!!). Che posso aggiungere ancora senza correre il rischio di risultare ripetitivo per parlare di questa pellicola che ribalta in maniera speculare le prospettive già espresse con singolare maestria in King Kong, ma lasciando inalterato il discorso di fondo così caro al regista, che è quello dell’impari confronto fra entità difformi e dissimili - da una parte ominidi minuscoli (ma non per questo meno combattivi) e dall’altra le gigantesche forze (della natura o della scienza a seconda delle circostanze)?. Posso dire che si tratta di una battaglia “ineguale” dalle incerte sorti ma dalle prevedibili conclusioni, combattuta con inesauribile determinazione e senza sosta in scenari differenti (ma analogamente disturbanti) sia che si tratti della struttura architettonica di quelle montagne di cemento (i grattacieli) che animano metropoli sempre più alienate e impossibili ormai da tempo non più a misura d’uomo dove è facile “perdersi e morire” più ancora che nelle remote vallate di un’isola sconosciuta e selvaggia, o che rappresentino gli anfratti scoscesi delle montagne peruviane, “impossibili” da scalare come un tavolo o una sedia di improvvise e inaspettate dimensioni gigantesche che diventano ostacoli insormontabili. Posso persino sottolineare l’antagonismo di un titanico confronto che determina una lotta per la sopravvivenza accanita e all’ultimo sangue che qui, in questo film, si sviluppa in un conflitto distruttore spesso stemperato nella distaccata ironia che “occhieggia” con sapiente partecipazione identificativa, verso la classicità di certi passaggi Omerici “riletti” in chiave più moderna e attuale. Ed è proprio in quest’ottica che si può davvero concludere affermando che Schoedsack con il suo “Dr Cyclops” è riuscito davvero ancora una volta a riproporre con ineguagliabile maestria, la superlativa, inimitabile complessità del mito con lo stupore e l’attesa di chi indaga l’immaginario ma senza per questo dimenticare la dimensione della realtà, attraverso un “percorso creativo” coinvolgente e “assoluto” che potremo definire a pieno titolo con la parola “CINEMA”.

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