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Il quarantunesimo

Regia di Grigorij Ciukraj vedi scheda film

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Questo testo contiene anticipazioni sulla trama.

La recensione su Il quarantunesimo

di pgm
8 stelle

Marx è morto, Dio è morto, Stalin è morto. 1956. L'Unione Sovietica produce Il quarantunesimo e comprendiamo come qualcosa stesse cambiando. In meglio (per noi) o in peggio (per loro)? La vicenda dell'infallibile tiratrice rossa Maryutka e del tenente bianco Vadim, del loro amore, della loro tragedia, ci appare paradigmatica.

Siamo nel 1920, in Russia infuria la guerra civile, in tutta la Russia. E la Russia, quale che sia il nome che si intenda darle, sovietica o zarista, è grande. Estremamente grande. Grandi sono i sentimenti in ballo, grandi (grandi?) gli ideali che muovono le masse, che spingono i soldati a uccidersi tra loro, in nome della Rivoluzione, contro quella nobiltà da essi odiata, abbattuta, esorcizzata. Il tenente viene fatto prigioniero, rischia d'essere trucidato, ma la criticità della situazione - la precarietà dell'attraversamento del deserto- riesce a salvarlo. Così, ecco il mare d'Aral, salvifico anzichenò, da attraversare anch'esso. La tempesta, probabile metafora della stessa guerra in corso, ed ecco che carceriera e prigioniero, loro malgrado, scampati alla morte, si ritrovano da soli a leccarsi le ferite, in una terra sconosciuta, inospitale, abbandonata, forse fuori dalla realtà, una spiaggia dove le capanne dei pescatori (partiti per pescare? fuggiti? morti? sterminati?) appaiono come unici segni di una civiltà scomparsa, monumenti grandiosamente poveri, rifugio provvido eppure insicuro contro un nemico invisibile perché interno, radicato dentro coscienze imbevute d'odio, traviate dalla propaganda. E così, la Russia che fu e la Russia che vorrebbe essere si ritrovano a convivere, travolti da un insolito destino, a sopravvivere, finché morte non li separi o qualcuno vada a salvarli. Ma quella spiaggia, come detto, è fuori dalla realtà, un oltremondo che è mondo a sé, una landa desolata e felice, dove tutto è possibile e niente può essere tutto, proprio perché quel niente è tutto quello che c'è. È in queste condizioni, in questo terreno imprevedibile che nasce l'amore tra Maryutka e Vadim, un amore indicibile, forse incoffessabile, difficilmente ammisibile soprattutto da lei, forse effimero, ma certamente vero, sincero, amore disperato che sa di non poter essere e sa di non avere un domani, destinato a consumarsi, a estinguersi nel medsimo modo in cui è avvampato. Come i due protagonisti finiscono per comprendere, esiste un "altro" oltre la guerra, oltre la suddivisione manichea e giustizialista, una visione tipicamente bolscevica, operata dai capi, quella suddivisione degli uomini in buoni (i rossi) e cattivi (i bianchi), un "altro" che è speranza, impeto germinale che potrebbe realizzarsi e non si realizza, focalizzato, fossilizzato in un'ideologia utopica e irrealizzabile, fonte d'odio becero, forse corretta negli intenti, ma messa in pratica nel peggiore e crudele dei modi. E proprio come accadrà anni dopo nel film della Werthmuller, il finale si veste di una certa circolarità: ogni cosa resta com'era, i due innamorati riabbracciano, per forza o per scelta, quello che erano prima, seppure con esiti tragici. Come se la loro liaison fosse stata soltanto il mero contenuto di un'immensa e intensa parentesi, aperta da una mancata uccisione e il suo compimento. Il quarantunesimo nemico ucciso.

Ambientazione, fotografia, delicatezza e, insieme, vigore di toni e messinscena (vedasi, per alcune sequenze, la lezione di Ejzenštejn, con i due Ivan in primis) sono caratteristiche encomiabili di questo film, ricco di inquadrature di ampio respiro e risvolti sorprendenti per quanto riguarda il risultato finale, se pensiamo a cosa fosse ancora la Russia nel 1956.

Un film eccellente, profondo, indimenticabile. Indimenticabile come Maryutka che, sbalordita e ancora col fucile in mano, comprende d'aver ucciso non solo l'amato, ma anche una parte di sé e del suo (represso) sogno di libertà e di pace.

Da riscoprire.

 

Voto 8

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