Regia di Veronika Lišková vedi scheda film
A Svalbard, nella parte artica della Norvegia, la gente da tutto il mondo può andare a vivere senza visto, fintantoché abbia una casa dove stare e un lavoro. Quando un’antropologa comincia a intervistare gli abitanti di Svalbard per chiedere come vivono da vicino il cambiamento climatico in termini di disagi quotidiani e stile di vita, un nuovo problema comincia a venire in superficie: Svalbard offre sempre meno lavoro, la Norvegia non vuole che sia un lasciapassare automatico per la cittadinanza e sempre meno domicili sono disponibili per i nuovi arrivati.
Un documentario convenzionale su alcuni esseri umani che vengono a poco a poco rigettati dal posto dove vogliono vivere, con tutte le incertezze che una fuga verso una non-casa (quella di origine, apparentemente invivibile) può comportare. Il film procede in una direzione relativamente imprevedibile, specie nell’evoluzione della storia della protagonista, e anche nelle voci degli intervistati: Svalbard diventa sempre più ostile, il sogno di viverci irrealizzabile a lungo termine, e il desiderio di tornare a vedere il verde diventa quasi straziante. Ed è un gesto di indubbia umiltà, quello del film di assecondare le paure di persone cacciate dalla loro nuova casa, che abbandonano la loro idea di bellezza di quei luoghi, la rifiutano, la sostituiscono alla bellezza canonica del resto del mondo. Però il tutto va al ritmo di un qualunque documentario rintracciabile su Netflix, e tanta convenzionalità può avere il brutto countereffect di desensibilizzare a un argomento urgente, che diventa il patrimonio di un linguaggio audiovisivo dozzinale.
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