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Armageddon Time - Il tempo dell'apocalisse

Regia di James Gray vedi scheda film

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Questo testo contiene anticipazioni sulla trama.

La recensione su Armageddon Time - Il tempo dell'apocalisse

di laulilla
7 stelle

È nelle nostre sale, anche in versione italiana, l’ultimo film di James Gray, “Armageddon Time, il tempo dell’Apocalisse”, una bella sorpresa, fra evocazione e cinefilia, fra commozione e inquietudine.

 

 

I 400 colpi del giovane Paul 

Identificandosi col personaggio di Paul (splendidamente interpretato dal piccolo Blanks Repeta), Gray evoca, in questo insolito “racconto di formazione”, la propria difficile pre-adolescenza, vissuta nei primi anni ’80 dello scorso secolo al Queens di New York, quando,  dodicenne, era stato costretto a frequentare la scuola “giusta”, quella che la famiglia aveva scelto per lui, in vista della sua realizzazione e del suo inserimento sociale non più rinviabile. Parrebbe una ricostruzione nostalgica, un difficile Coming of Age più volte raccontato nel cinema, che questa volta gli occhi del regista-Paul ripercorrono malinconicamente.
Non è così.
Come è stato notato autorevolmente il film esordisce con un lucido e riconoscente omaggio a Truffaut e al suo ” I 400 colpi”, a cui ci riportano analogie evidenti: la solitudine del protagonista, tenero e sognatore; la sua difficoltà ad accettare la realtà; l’amicizia per un coetaneo compagno di scuola, il coinvolgimento di entrambi in azioni illegali e pericolose.


Le analogie non nascondono le differenze profonde dei luoghi e del tempo del racconto: Paul non è Antoine Doinel, né la famiglia ebraica di Paul, che abita nel quartiere dei Queens, con vista su Manhattan, ricorda la famiglia parigina di Antoine, che non è aiutato e protetto da una famiglia, sia pure imperfetta come quella di Paul. 

Soprattutto, gli anni ’80 dell’America reaganiana, non è la Parigi che alla fine degli anni ’60 Truffaut metteva in scena, avendo in mente Jean Vigo.

 

La famiglia di Paul, infatti, ha un passato tragico, del quale il piccolo Paul poco sa: qualche frammento di conversazione carpito al volo e qualche breve racconto di nonno Aaron (Anthony Hopkins), il patriarca ebreo-askenazita che, insieme ai figli e ad altri parenti, era scappato – con la parentela che aveva radunato – dall’Ucraina, per sfuggire ai nazisti durante la seconda guerra mondiale, evitando i confini polacchi dove le S.S. attendevano gli ebrei.

Fortunosamente, raggiunta Liverpool, la famiglia aveva traversato l’Atlantico alla volta degli Stati Uniti: il grande faro di LadyLiberty, Ellis Island, poi, finalmente il Queens, dove, come altre famiglie ebree, aveva trovato accoglienza e si era inserita nel mondo americano...


Sedotti dall’American Dream, tutti in quella famiglia cercavano di migliorare - col lavoro, l’istruzione e la buona volontà - la propria posizione e condividevano i valori liberal dei democratici in vista di una società più giusta, senza discriminazioni religiose.
La durezza delle condizioni di partenza, d’altra parte, non aveva impedito il matrimonio fra la figlia di Aaron, l’ambiziosa Ester (Anne Hathaway) e Irving (Jeremy Strong), idraulico di modeste condizioni, ma gran lavoratore ebreo, che attende con lei le “magnifiche sorti e progressive” dei figli, a cui il nonno, con la sua generosità, non avrebbe fatto mancare le scuole “giuste” per realizzarle.


Il Coming of Age di Paul, perciò, grazie al nonno, coincide col suo passaggio dalla scuola pubblica (dove era diventato l’inseparabile amico di Johnny (Jaylin Webb) – il piccolo afroamericano povero, il compagno dell’ultimo banco – ) al ginnasio privato dei ricchi, i cui rampolli  si facevano le ossa in vista del futuro prestigioso destinato ai bianchi danarosi e privilegiati.


Il 1980, primo anno della presidenza Reagan, l’uomo “nuovo” arrivato alla Casa Bianca con un programma reazionario, aveva sancito, dunque, la separazione del dodicenne Paul dall’amico nero, discriminato – oltre che per il colore della pelle – per la povertà solitaria, di cui, nella Manhattan del sogno americano, nessuno si preoccupava. 

 

 

 

 

 

Grandi attori hanno dato profonda credibilità ai personaggi di questo film: i due bambini, prima di ogni altro; poi – ma non occorre dirlo – Anthony Hopkins, incarnazione di un perfetto ed equilibratissimo vecchio, la cui tenera comprensione nei confronti del piccolo Paul, contribuisce a infondere nel fragile sognatore la consapevolezza che, anche se non sempre si riesce a realizzare i sogni, almeno ci si prova, senza tradire la fede nella razionalità di ogni uomo, accettando le diversità non solo religiose di ciascuno e opponendosi alle ingiustizie.

Un film che, accompagnando le contraddizioni di Paul e il suo malinconico abbandono dell'infanzia, ci parla delle delusioni e delle contraddizioni di oggi, dei problemi non risolti, della difficoltà di accogliere e di ascoltare, dell'incertezza del futuro, ovvero delle nostre inquietudini e delle nostre speranze.

Da vedere.

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