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Nick's Movie. Lampi sull'acqua

Regia di Wim Wenders vedi scheda film

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La recensione su Nick's Movie. Lampi sull'acqua

di pagoda
8 stelle

Un film che mescola la vita, il cinema, i sentimenti di due uomini, un cineasta morente ed un allievo in difficoltà. Un film sull’amicizia, ma anche e soprattutto sulla morte e sul bisogno assoluto di esorcizzarla con la cinepresa. Un film che intreccia in maniera indissolubile cinema e video, mettendo in scena la radicale inafferrabilità degli eventi e l’impenetrabilità semantica del reale. Come è noto, "Nick's Movie" ha conosciuto due versioni: la prima è quella montata da Peter Przygodda, abituale collaboratore di Wenders, e presentata al festival di Cannes nel 1980. La seconda e definitiva, più corta (92' contro 114'), rimontata dallo stesso Wenders e ufficialmente espurgata dalle riprese più morbose e voyeuristiche.
Ora, a quasi quindici anni di distanza dalla sua uscita, occorre tentare una lettura dell’alternanza dei due supporti meno condizionata da pressioni morali e più aderente alla concezione estetica dell’autore tedesco. Senza negare la pertinenza di un discorso attento alla ricaduta etica dell’operazione wendersiana, pare opportuna una considerazione altrettanto rispettosa della sua poetica. Ritenere Nick’s Movie un film teso esclusivamente a cogliere la morte al lavoro, a registrare il lento decadimento fisico di Nicholas Ray significa attribuirgli un carattere orientato e finalistico decisamente estraneo alla poetica di Wenders. Un confronto spregiudicato con il film può suggerire qualcosa di diverso dalla semplice – anche se imprescindibile – questione voyeuristica, vale a dire una valutazione stilistica delle interferenze linguistiche. In altri termini, le sovrapposizioni tra cinema e video, lungi dal delimitare campi d’intervento e funzioni distinte, rimandano ad un problema comune: l’irrimediabile debolezza delle immagini e la fatale impossibilità di cogliere ciò che sta dietro alla superficie delle cose.
Il riferimento, naturalmente, è alle folgoranti osservazioni di Fernaldo Di Giammatteo:

"Wenders è lo specchio di una profonda fragilità. Tutti i suoi film rivelano quanto egli sia indifeso dinanzi agli attacchi del mondo – della sorte, della vita – e quanto bisogno abbia di un rifugio nel quale rintanarsi. Esistono registi che possiedono la spavalda certezza di chi sa di avere il mondo in pugno nel momento stesso in cui lo fissa sulla pellicola: Rossellini, per esempio, o Bergman o Kubrick. Fissare il mondo è, per loro, scoprire il senso, anche se il senso può essere ambiguo. Wenders è troppo fragile per credere di saper dominare la macchina che ha a disposizione: il cinema è infido, maledetto.
L’immagine è infida e maledetta. In tutti i film di Wenders incombe la presenza dell’immagine “riprodotta”. Qua e là schermi televisivi (…) ricordano che l’universo in cui vive l’uomo, oggi, non è più quello della natura. La “innaturalità” vigila sulle azioni umane. Wenders non solo ne è cosciente (come, ad esempio, Antonioni) ma si fa profeta e apostolo di tale presenza, d’una simile forza influente e pervasiva. […]
Wenders non sa però che significhi la presenza. Sa soltanto che c’è. Non tenta neppure di spiegarlo, per ragioni che vanno oltre il cinema, senza dubbio (…). La fragilità lo induce a cercare a tastoni, ovunque possibile (…).", (Fernaldo Di Giammatteo, "Un cinema della fragilità", in AA VV, "Il cinema dello sguardo", Loggia de' Lanzi, Firenze, 1995, pp. 17-18).

Osservato da questa angolazione, il rapporto tra cinema e video denuncia la sostanziale inadeguatezza delle immagini ad afferrare il senso profondo del reale. La proliferazione dei supporti e la sovrapposizione dei linguaggi visivi suggeriscono per eccesso l’incapacità di stabilire un contatto stabile con il profilmico, realtà che, invece di prestarsi ad una riproduzione pacifica e orientata, ostenta una irriducibile opacità.
In questo senso sembra andare l’esibizione dell’attrezzatura cinematografica e dell’allestimento del set, apparentemente riconducibile al genere del backstage, in realtà squarcio su scene probabili, su schegge iconiche, su immagini potenziali: un vero e proprio campo di possibilità. Sovrarappresentando il reale, video e cinema, insieme, disegnano un incavo, scavano un vuoto nella rappresentazione, mostrano paradossalmente l’inafferrabilità degli esseri e delle cose.
Nicholas sta morendo, ma noi vediamo soltanto la messa in scena della sua malattia, il riflesso finzionale della sua sofferenza, la rappresentazione volutamente caricaturale della sua agonia. Si veda l'ultima spettrale apparizione di Nick, plateale riproduzione dei rantoli e delle espressioni deliranti tipiche della fase terminale della malattia. E' insopprimibile l'impressione che in questa scena Nick stia recitando la sua sofferenza, sovrapponendo alla situazione esistenziale una consapevole interpretazione drammatica. In palese contraddizione con le parole di Wenders, ancora una volta, la finzione è più forte della realtà da rappresentare. O meglio, nell’eccedenza, il visibile ci porta a dubitare della sua affidabilità e ci suggerisce direzioni di lettura che spingono altrove.
Anche la questione del pudore e dell’oscenità assume tutt’altro significato, affrontata in questi termini. Il problema centrale non consiste più nella effrazione dell’intimità di Ray e di un suo uso immorale - e di una conseguente correzione antivoyeuristica -, ma nell’eliminazione deliberata del cuore drammatico della vicenda e nella definizione di un rapporto tra i due linguaggi in grado di scavare un vuoto tra realtà e riproduzione iconica. E' dunque possibile interpretare la revisione di Wenders al primo montaggio di Przygodda non tanto come un intervento “sanitario” quanto come il riassetto di un film che aveva assunto un carattere orientato e finalistico radicalmente estraneo alla sua estetica. Accordare alle immagini la libertà di rappresentare la morte significherebbe attribuire loro una forza e una fiducia incompatibili con la poetica della fragilità messa in luce da Di Giammatteo, significherebbe scoprire il senso dell’evento e fare della riproduzione iconica un semplice mezzo di trascrizione e di fissazione, sbilanciando irreparabilmente il testo dalla parte del contenuto e della trasparenza. A Wenders questo evidentemente non interessa, egli pare più attento a mostrare le traiettorie eccentriche, a disorientare il movimento filmico anziché orientarlo, a percorrere il tragitto anziché arrivare a destinazione. Ecco il perché dell’assenza della morte vera e propria, ecco il perché dell’ostentazione dei tratti finzionali di una sofferenza drammaticamente autentica, ecco il perché dell’indebolimento semantico e funzionale dei due linguaggi. La fragilità è dilagante.

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