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Living

Regia di Vasiliy Sigarev vedi scheda film

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La recensione su Living

di Peppe Comune
8 stelle

Artem (Aleksei Pustovoitev) è un ragazzino che viene sempre trattato male dalla madre (Yana Sekste) e dal nuovo compagno (Dmitry Kulichkov) della donna. Se ne sta sempre alla finestra a guardare giù nel cortile. Aspetta che arrivi il padre (Evgeniy Sytyy) per portarlo via da quella casa che gli appare ostile. Ma non sa che la vecchia bici del padre è stata recuperata dalle acque gelate di un fiume. Grishka (Yana Troyanova) e Anton (Aleksey Filimonov) sono una coppia di amanti apparentemente serena. Lui e sieropositivo ma questo non gli impedisce di progettare insieme il loro matrimonio. Un giorno però, durante un viaggio in treno, la donna è costretta ad assistere impotente a un brutale pestaggio subito dal suo uomo. Nell’indifferenza totale di chi viaggiava nel loro stesso vagone. Kapustina (Olga Lapshina) è una donna che sta cercando di guarire dal vizio dell’alcool. Intanto, le due piccole figlie (Marina e Sasha Gavrilova) sono state affidate ai servizi sociali. Costrette a vivere lontane dalla madre, si trovano coinvolte in un tragico incidente ferroviario. Ma la madre non vuole saperne di considerarle morte. Tutte queste persone abitano nello stesso caseggiato di una non precisata città russa. Condividono tutti la desolante esperienza della morte. Ma tra di loro non si conoscono.

 

scena

Living (2012): scena

 

 

Anche quando era “costretto” a muoversi entro determinati spazi stilistici e formali, il cinema russo è sempre stato caratterizzato da una forte carica speculativa che, invariabilmente, passa dall’analisi sull’uomo a quella sulla società nel suo complesso, dalla teoria “materialista” alla prassi “naturalista”. Costringendomi ad essere sintetico, e senza addentrarmi affatto nella florida e poderosa cinematografia russo-sovietica, diciamo che il tutto ruota intorno a due fondamentali direttive poetiche. Da un lato, troviamo lo scandaglio psicologico dei personaggi portato talvolta al limite della loro scarnificazione caratteriale. Dall’altro lato, il rapporto che l’uomo ha con la natura, che anche quando è di tipo unicamente materiale e ha poco o nulla di trascendente, non manca mai di conferire un’impronta introspettiva alla sua esistenza.

“Living” di Vasiliy Sigarev è pervaso da questa indole speculativa che caratterizza la migliore tradizione del cinema russo, partendo dal titolo, che suona come un invito (anche un po’ beffardo se si vuole) a ridefinire il senso della vita iniziando dal considerare il come e il quanto la morte sa condizionarne irreversibilmente gli sviluppi. “Living” è naturalmente proteso a trasmettere la sostanza psicodrammatica che scaturisce dal suo sviluppo narrativo, senza ricorrere a gratuiti inserti spettacolari e senza paura di arrivare nudo alla meta, spogliato, cioè, di ogni eccesso retorico o appiglio moralistico. È un film triste e cattivo insieme, che mette al centro della storia l’incapacità dei personaggi di gestire i contraccolpi psicologici prodotti dal sopraggiungere improvviso della morte e della manifestazione gratuita della violenza. L’ambientazione è volutamente privata di precise coordinate spazio temporali, ci si può trovare in ogni luogo e in qualsiasi anno di questa problematica contemporaneità. La neve si estende spesso a perdita d’occhio, contribuendo a generare un clima di palpabile depressione che coinvolge luoghi e persone.

Vasily Sigarev dirige con consapevole padronanza questo film ostinatamente anti-consolatorio, basato su tre storie diverse accomunate dalla condivisione dello stesso spazio sociale e dalla problematica elaborazione del lutto. I protagonisti vivono tutti nello stesso caseggiato ma tra di loro non si conoscono, praticano strade parallele destinate a non incrociarsi mai. Si sfiorano solo qualche volta, ignari che la morte metterà ognuno in uno stato di dolorosa attesa. Perché la morte è così quando è prodotta da cause che si ritengono profondamente ingiuste : arriva all’improvviso e poi non smette di popolare i luoghi della mente. Sigarev ne fa un oggetto materico capace ogni volta di allontanare il momento della compiuta consolazione. Ne fa un frutto della cattiveria umana, del banditismo metropolitano, dell’indifferenza vigliacca, dell’egoismo domestico, dell’ingiustizia sociale. Mali di sistema che non vengono mai mostrati in pompa magna, ma messi in controluce a fare da cornice silente a delle esistenze private della felicità di vivere. Uomini e donne che piangono la morte delle persone amate e che conducono una vita che è la fedele proiezione del dolore lancinante che portano nel cuore. Esistenze abitate da fantasmi dalle fattezze umane, da corpi che si ribellano al loro deperimento, dallo sconforto che sconfina nella follia visionaria. In questa costruzione psicodrammatica, il montaggio gioca un ruolo fondamentale, facendo essere la vita e la morte due entità indistinguibili. Vasily Sigarev mischia abilmente le carte lasciando sempre qualche dubbio sulla determinazione precisa del momento della morte e sulle concrete modalità delle sue transizioni nella vita terrena. Il bambino che aspetta speranzoso l’arrivo del padre, la ragazza che piange per la violenza brutale subita dall’amato compagno, la donna che si oppone ferocemente alla sepoltura delle piccole figlie. Tutte persone che non vogliono rassegnarsi alla perdita definitiva dei propri cari, che finiscono per vedere ciò che più desiderano, a indirizzare i propri pensieri verso le uniche cose che possono dargli consolazione. Perché, senza la presenza tangibile delle persone amate, la loro vita somiglia ancora di più alla morte che stanno piangendo. Grande film.        

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