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Barton Fink - È successo a Hollywood

Regia di Joel Coen vedi scheda film

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La recensione su Barton Fink - È successo a Hollywood

di omero sala
9 stelle

 

Un film surreale e contorto, disorientante, allucinato e a tratti perfino opprimente. Comincia come un film satirico, si evolve nel grottesco e finisce in un’apoteosi dell’assurdo, kafkiano e nello stesso tempo pulp.

 

Ambientato nel 1941, condensa tutte le paranoie degli anni ’90, le incertezze e le frustrazioni di fine secolo, il senso di inadeguatezza degli individui di fronte a un mondo dagli ingranaggi irrazionali.

 

La trama è semplice: Barton Fink (uno stralunato John Turturro) è uno dilaniato sceneggiatore che a Broadway miete successi strepitosi di pubblico e di critica (forse grazie al senso di frustrazione che intride la sua esistenza e la sua scrittura). Non ama l’improvvisa notorietà e lo sconcerta il milieu culturale di New York che lo osanna senza comprenderlo e senza cogliere a fondo la portata eversiva del suo messaggio.

Viene convinto a trasferirsi a Los Angeles dove, per autori come lui (capaci di raccontare storie), il denaro scorre a fiumi: ma il suo trasloco (poco convinto) e le richieste strampalate del grosso produttore che lo ha “comperato” inaridiscono la sua creatività e lo gettano nella desolazione. 

Lo sconforto è acuito dal fatto che vive nella stanza squallida di un enorme hotel fatiscente (con atmosfere lynchiane, corridoi kubrickiani da incubo e camere lerce che grondano dissoluzione): un luogo infernale in disfacimento (il portiere Buscemi esce da una botola del pavimento).

Il boss, tronfio di presunzione, gli ha dato poche settimane per realizzare la sceneggiatura di un film sul wrestling (!), e - vantandosi di aver fiuto per i gusti del pubblico (“la gente”) - gli ha perfino suggerito un abbozzo di trama dal quale non potrà discostarsi. 

Ma il povero Barton Fink, sradicato dal suo contesto e incapace di adattarsi agli ingranaggi produttivi o di piegarsi a scrivere sceneggiature sceme, si inaridisce e si blocca e non riesce a mettere giù una riga. 

Nell’inedia sconsolata fa amicizia con Charlie (John Goodman) un invadente vicino di stanza e aggancia un famoso scrittore sperando così di uscire dall’angoscia della solitudine e superare la paralisi creativa; ma il nuovo amico si rivelerà uno sadico killer seriale con tendenze nazi e il venerato scrittore un demente alcolizzato alla deriva (che, oltretutto, va predicando la scrittura come fuga dalla realtà, al contrario del nostro Barton che la considera un’immersione nel quotidiano). 

Quid est veritas?

Sopra la scrivania della deprimente camera d’albergo è appeso un mediocre quadretto che raffigura una spiaggia con una ragazza seduta sulla sabbia. La donna del quadretto ci mostra la schiena e guarda il mare (quasi come quella del quadro di Hopper “Sole del mattino” che se ne sta seduta sul letto e guarda fuori dalla finestra). Nel finale del film Barton cammina sulla spiaggia (o sogna di camminare sulla spiaggia) e incontra (o sogna di incontrare) una ragazza che si siede davanti a lui come quella del quadretto dell’albergo.

Dov’è il confine fra la realtà e la cartolina? dove finisce la vita e dove cominciano i sogni o gli incubi? 

Quando, dove e perché è iniziata la catastrofe?

È più infernale l’albergo (che alla fine sarà distrutto da un incendio) o lo studio e il bordo piscina del produttore?

I fratelli Coen azzannano le ipocrisie hollywoodiane o quelle dell’universo mondo?

La confusione che annebbia Barton è solo sua e passeggera o è di tutti?

C’è un personaggio nel film che non sia un perdente?

Barton porta con sé una scatola. La ragazza gli chiede cosa contenga. “Non lo so”, risponde lui, smarrito; lei allora chiede di chi sia; e Barton, l’uomo che non c’era, risponde ancora “Non lo so”.

 

All’inizio del film, da dietro le quinte di un teatro, sentiamo spezzoni di dialogo della commedia di Barton Fink rappresentata a new York. Un personaggio dice: “la stessa luce del giorno può essere un sogno, se la si è vissuta ad occhi chiusi”.

 

 

 

 

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