Per Vieri
Lessico fiorentino e risata sarcastica contro i conformisti e chi pigliava una parola a caso per scrivere di libri, arte e cinema, quando lui era un ammiratore del segno linguistico e iconico, piccolissimo o giganteggiante come il poster di Mirna Loy appoggiato alla parete davanti alla porta di casa.
Vieri era uscito da un racconto di Francis Scott Fitzgerald con il suo completo bianco da Grande Gatbsy, divinamente bello, proprio da divo, e aveva intorno a sé amici di alto rango artistico, pittori come Giosetta Fioroni, poeti come Patrizia Cavalli, attori come Margherita Buy, registi come Lucrecia Martel e Susanne Bier, di cui è stato produttore con l’etichetta Teodora. Molti lo hanno sfiorato e ammirato nei festival internazionali, molti hanno fatto tesoro delle sue lezioni di cinema, condivise in un’epoca più recente dal suo compagno Cesare Petrillo, entrambi inarrivabili memorie critiche.
In tv e nei dvd della sua casa editrice, Vieri non era solo il magnifico presentatore, non era solo un “extra”, ma, rivedendo i suoi interventi nel cofanetto di James Mitchell Leisen, gli dissi che era il “dolce” della visione, era il film. Mi raccontò di avere le lacrime agli occhi per Million dollar baby, e tutti sanno quanto amava Orson Welles e quanto detestava il libro pettegolo di Henry Jaglom A pranzo con Orson. Non gli piaceva Guerre stellari, killer della New Hollywood originale e del cinema tutto. Ma il suo senso dell’humour era illimitato e comprendeva Buster Keaton, Woody Allen e Jerry Lewis, che abbiamo visto insieme sul palco di Londra nel musical del 1996 Damn Yankees. Indignato contro Martin Scorsese e la sua Storia del cinema che aveva trascurato commedie e comici... Molti i frammenti delle nostre conversazioni, ai margini della sua intensa vita.
Come si può parlare di Vieri Razzini senza dire di essere stato un suo amico? Lui di certo lo era. E tutto cominciò per un equivoco quando scrissi sul manifesto di una rassegna curata da lui su Raitre, e che Vieri interpretò come una critica. Mandò al giornale una lettera pungente dove mi definì “monello”. Ma quel mio pezzo lo elogiava e criticava altri. Mi ero spiegata male.
Allora eccoci qui languidamente sprofondati nei suoi divani, uno di fronte all’altro, Roberto e Cesare con noi, a sfogliare fotogrammi davanti alla vetrata che dà sulla terrazza fiorita, in compagnia di due gattoni circospetti. E poi a Cannes e a Venezia, Vieri sempre vertiginoso nelle scelte dei film, nelle stroncature e negli innamoramenti.
Ci sono persone che si fiancheggiano strada facendo, che si scambiano idee e sacchetti di origano salentino, e non c’è da vantarsi di chissà quale privilegio... “io lo conoscevo bene”. Qualcosa di lui, però, è rimasto fuori dalle cronache della scomparsa, a pochi giorni dal compleanno, il 3 luglio, ed è la sua scrittura danzante.
Uno per tutti, il romanzo La ricchezza di Perdido (‘96), per set immaginario New Phoenix, quasi una Palm Spring, dove si rifugiano i “pensionati” di Hollywood. Commedia nera, thriller surreale, quasi un film di Joe Dante, la storia dell’eterna giovinezza via bisturi. Vieri sa distillare da ogni parola profumi di sequenze-capolavoro, facce e nomi mitici, evocati da una penna che pensa per immagini. Protagonista il “più grande chirurgo plastico d’America” che scolpisce volti e corpi e scortica pance, spiana rughe, rialza occhi e trasforma tutti in campioni di fascino. C’è a chi cade un occhio, ovvero la palpebra, durante un party, segue una pioggia di scorie e resti organici che piombano alla rinfusa sui corpi dei bellissimi con effetto Frankenstein. Se il clima rievoca quello di La morte ti fa bella, quello di Vieri (che concepì il racconto molto tempo prima, e non amava tutto Zemeckis) è carico di un’altra inquietudine. La sua è una satira struggente sull’ossessione del bello e del desiderio, contro il tempo e il decadimento, per un mondo mai piegato dalla natura e dalla morte. Per sempre vivi, amanti al di là dei sessi. Pagine di affetto e comprensione per coloro che adoriamo sullo schermo in bianco e nero e che sappiamo defunti, sotto terra, senza l’abito da festa. Quel benefattore visionario, alias Vieri Razzini, ce li consegna, insieme a se stesso, ancora raggianti, divi e divine.
Mariuccia Ciotta
Vieri Razzini, elegante militante
“Un gentiluomo del nostro tempo” lo avrebbe chiamato Eric Rohmer. E sottintendeva: chi regala al pensiero cinematografico la modernità di uno sguardo soggettivo, indocile alle chiese. Ma tra i teppisti del giornalismo in rivolta che infrange i divieti istituzionali e provoca il gusto ufficiale, il fiorentino-romano Vieri Razzini era, per chiarezza e concisione, il più “anglosassone”.
Il cinema di Raitre e di Guglielmi, senza di lui, Giusti e Ghezzi, non avrebbe imposto Welles, Ciprì & Maresco, Steve Reeves e Lubitsch, come il quartetto del cinema futuro.
Ma deve averne fatte di tutti i colori il Paolo Poli della cinecritica nostrana per aver provocato, alla notizia della sua improvvisa scomparsa, un così rumoroso silenzio mediatico. Più di Pintus, Fava, Di Giammatteo, Rondi e Elsa Morante, cioè dei critici che ci hanno raccontato nei decenni democratici e da funzionari Rai i piaceri del cinema. Epoca ormai scomparsa e forse dimenticata visto che oggi il solo critico sopportabile è il box office.
Eppure ricordo che Vieri Razzini nel 2004 smontò sul manifesto, in perfetto stile wit, cioé con l’umorismo fervido e incomparabile che lo caratterizzava, le omofobiche uscite dell’on. Buttiglione, in occasione dell’uscita italiana di Camminando sull’acqua dell’israeliano Eytan Fox.
Memorabile anche la bufera sollevata in viale Mazzini quando Minoli lo inquisì per aver programmato un documentario “ideologico” di Paolo Pietrangeli, Bianco e nero (1975), sui perversi rapporti tra stato, Dc e neonazisti e ci mancava altro che non l’avesse fatto, il pragmatico (stavano scadendo i diritti Rai del film, spreco di soldi pubblici).
Forse lo si incolpa ancora per aver aver sdoganato su RaiPlay la trilogia della vita di Pasolini senza censura? O è considerato inguaribilmente diabolico per l’intero catalogo Teodora (almeno prima che lui e l’adorato marito e complice Cesare Petrillo lasciassero la società ai cuccioli), apoteosi della cultura LGBTQIA+ ?
È vero che polemizzò con le rassegne veneziane di Giusti che riabilitavano il cinema popolare italiano, ma non per conformismo mainstream, piuttosto perché giudicate poco “camp”. Basterebbe rileggersi l’elogio del peplum in occasione del campionato mondiale di Body Building (il manifesto, 7 dicembre 1996).
Non ricordo, inoltre, altri colleghi capaci di alzarsi, pochi minuti dopo l’inizio di un film venerato, a Berlino, Cannes o Venezia e chiudere definitivamente la partita. Solo Raul Ruiz possedeva la stessa scientifica virtù di disintegrare, in un attimo, ogni ricattatoria prosopopea visuale. Come quando Vieri prese di mira “certe foglie di platano agitate dal vento tra cui occhieggia graziosamente il sole”, molto prima che finissero i 188 minuti di L’albero dei frutti selvatici di Nuri Bilge Ceylan.
Perfino i “capolavori assoluti” possono nuocere gravemente alla salute. Attenti alle palline dei critici... E comunque i critici e gli spettatori, ci insegnò Vieri, sono corpi interi, non solo pezzi di cervello...
Come Chabrol e Truffaut, che da critici si mutarono in registi, Vieri Razzini fu pronto alla deviazione postmoderna, moltiplicando la sua vocazione critica fino a imporre nelle sale un vecchio classico del 1942 Vogliamo vivere, in bianco e nero, formato 1.33:1 e le riempì d’oro perché l’esperienza da Classic Theater era più competitiva di ogni bizzarria in 3D.
Fu anche produttore, attore, uomo di festival (Mystfest), romanziere (e Fulci si innamorò di Terapia mortale), autore di serie tv e soprattutto critico trans-mediale didatticamente perfetto (il suo catalogo Flamingo video non è forse competitivo con Criterion?), autore di post geniali su Facebook, voce radiofonica di chirurgica precisione estetica (l’elogio a Panni sporchi di Monicelli, al fellinismo fertile di Nanni Moretti del Caimano...) .
E, naturalmente, distributore: ed ecco Irina Palm, Amour, Tomboy, Pride, In un mondo migliore, Il figlio di Saul... film”spiritosissimi e crudeli”, come piacevano a lui.
Come la sceneggiatura di Evita, che in un suo celebre articolo sui grandi film del 1996 dimenticati dagli Oscar, non ha timore a giudicare “guastata dalla musicaccia di Webber e dalle immagini enfatiche e naturalistiche di Alan Parker”.
Come Fargo: “con quell’idea geniale che sia un perfetto cretino, un idiota superficiale e avido, a mettere in moto tutto l’infernale e tragico meccanismo. Tra l’altro un film sulla stupidità e i suoi pericoli con un protagonista intelligente, l’esatto contrario di molti film contemporanei che eleggono a protagonisti degli scemi (o che si comportano come tali) e quindi risultano non interessanti ab initio”.
Come Larry Flint: “la storia più americana, dinamica, grintosa, ambigua da anni, uno strabiliante Woody Harrelson, e poi la classe di Milos Forman, la presenza quasi tattile, fisica, del grande cinema, dinamico come la storia che racconta con immagini scintillanti e forti e molta emozione al posto del patetismo”.
Come Mars Attacks!, “dove il godimento, stando al gioco, è illimitato, a partire dai titoli di testa, con quelle decine di dischi volanti ripresi in tutte le angolazioni che facevano molto pensare a una Op Art in movimento (giusto nei giorni in cui moriva Vasarely), fino a Silvia Sidney salvatrice del mondo per via di quell’“Indian Love Call” riarrangiato in stile hawayano: troppo per dei sofisticatoni (perfidi, traditori e spergiuri) come questi marziani che abbattono tutti i monumenti cari al mid-cult internazionale ma non hanno previsto la canzone d’annata”.
Roberto Silvestri
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