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Squid Game

2 stagioni - 19 episodi vedi scheda serie

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La recensione su Squid Game

di mck
8 stelle

"La borghesia, il proletariato, la lotta di classe, cazzo!" (cit.), ovvero: Mai dire Evviva (As the Humans Will).

 

Prendete “the Most Dangerous Game” (1924) di Richard Connell (e i film da esso tratti, partendo da Irving Pichel ed Ernest B. Schoedsack ed arrivando sino a Craig Zobel e passando per Robert Wise e molti altri), la Decima Vittima (1965) di Elio Petri (da Robert Sheckley), RollerBall(1975) di Norman Jewison, “Takeshi’s Castle” (1986-1989) di “Beat” Takeshi Kitano e la sua nemesi decostruttiva, “Mai Dire Banzai” (1989-1991), ad opera della Jalappa’s Band, “13 - Tzameti” (2005/2010) di Géla Babluani, “Kami-sama no Iu Tori / As the Gods Will” (o “Come Dio Vuole” per i monoteisti), il manga (2014) di Kaneshiro e Fujimura e il film (2014) di Takashi Miike, “Parasite” (2019) di Bong Joon-ho e tanti altri più o meno liminali alla stessa Zona distopica ["the Cube", "Battle Royale", "Series 7: the Contenders", "Saw", "Hunger Games", "SnowPiercer" (film e serial), "Maze Runner", "the Belko Experiment", "3%", "el Hoyo", "High-Rise Invasion (Arrive)", "Alice in BorderLand", etc...) e potrete avere un’idea di cosa sia “Ojing-eo Geim / Squid Game” (“il Gioco del Calamaro”), la serie in 9 episodi scritta e diretta da Hwang Dong-hyuk (1971; My Father, Silenced, Miss Granny, the Fortress).

 


“Il tasso di rientro è del 93%.”

Un ircocervo, insomma, con dalla sua un’ottima regìa e soprattutto da una parte un’eccellente scrittura e caratterizzazione dei ruoli e dall’altra degli eccezionali attori a volte, arrivo a dire, “esageratamente” bravi, ché per esempio il magnifico protagonista Lee Jung-jae (“the HouseMaid” di Im Sang-soo) in alcune occasioni dona anche/forse “eccessive” sfumature al suo personaggio, mentre completano il cast: Jung Ho-yeon (una “disertrice” nordcoreana, rimasta orfana assieme al fratello minore durante un precedente tentativo di espatrio verso la Cina; modella, qui al suo più che convincente e a tratti formidabile esordio assoluto), Park Hae-soo (quello che ha studiato al’università di Seoul ed ora ha un lavoro importante in cui maneggia e investe ingenti quantità di denaro per conto di una grande società: poi i futures si sfuturizzano), O Yeong-su (l’anziano n. 001, malato terminale; attore teatrale di lungo corso e già in "Primavera, Estate, Autunno, Inverno… e ancora Primavera" di Kim Ki-duk), Heo Sung-tae (un gangster di media fascia in fuga dai capi che ha tentato di fregare derubandoli), Anupam Tripathi (un immigrato pakistano con moglie e figlio a carico), Kim Joo-ryoung (una donna per tutte le stagioni), Wi Ha-joon (un poliziotto auto-infiltratosi nell'organizzazione dopo aver trovato delle tracce che portano ad essa riguardanti il fratello maggiore scomparso), Lee Yo-mi (una ragazza appena uscita di prigione dopo aver scontato la pena per aver ucciso il padre con lo stesso coltello utilizzato dall'uomo per ammazzare la moglie, madre della giovane rimasta sola al mondo: ad un rilascio segue un'altra incarcerazione) e Lee Byung-hun (il frontman).

 


“Non ci si fida delle persone perché se lo meritano. Lo si fa perché non hai altri su cui contare.”

La fotografia si divide - e al contempo crea un ponte non straniante - fra la realtà la fuori (i quartieri benestanti e quelli poveri di Seoul) ed il concentrazionario non-luogo artificiale di sterminio isolano/isolato. Il montaggio coadiuva alla perfezione la suspense, con naturalezza, e senza eccedere, strafare e strabordare nei cliché. Le scenografie giocano un ruolo fondamentale: per alcuni versi sono un po’ troppo “dumb” (l'escher-pastello), per altri invece sono magnifiche (basti considerare, durante il quarto gioco, quello con le biglie, il quartiere tipico coreano ricostruito ad arte: ogni buon milanese e dintorni avrà riconosciuto le “proprie”, di coree). Le musiche sono di Jung Jae-il (“Okja”, “Parasite”).

 


“Quando eravamo piccoli giocavamo così, e le nostre mamme ci chiamavano per cena. Non c’è più nessuno a chiamarci, adesso.”

Gli stereotipi e i luoghi comuni del "genere", per quanto riguarda i colpi di scena, sono gestiti ed utilizzati al meglio, e senza strafare, e se pur con una programmaticità millimetrica, agiscono ad un livello, se non "profondo", parimenti niente affatto superficiale e per nulla telefonato/scontato. “Peccato” per un (“non”) finale che può sembrare un’epitome della cattiveria, ma che in realtà risulta essere, mettendo in scena un tanto “classico” quanto inutile e superfluo cliffhanger, un compromesso col “format”. Poi, solo l’esito dell’eventuale prosieguo con una seconda stagione potrà dire se la scelta messa in atto dal protagonista sia in realtà in linea o (me)no col personaggio e in particolare col rapporto che vorrebbe reinstaurare con la figlia: e per com’era prima e per così com’è stato irrimediabilmente cambiato dall’esperienza vissuta.

 


"La borghesia, il proletariato, la lotta di classe, cazzo!" (cit.), ovvero: Mai dire Evviva (As the Humans Will).

* * * ¾ (****)          

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