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Il vocabolario dei sentimenti - Imbarazzo (10)
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Secondo Castelfranchi, il nucleo dell’imbarazzo consiste in una perdita, avvenuta o temuta e comunque momentanea, della propria autostima situazionale, una condizione quindi che si può definire meglio come uno stato di terribile disagio interiore che si riflette nell’atteggiamento esitante che si assume improvviso, nell’espressione confusa del volto, nella innaturale  postura del corpo. Elementi questi che denotano inesorabilmente turbamento, vergogna o soggezione (a seconda dei casi) e denunciano una accentuata défaillance  e una conseguente “difficoltà” emotiva che si ripercuote inevitabilmente sul vissuto personale creando lacerazioni e dolore.

Non è solo in questa accezione ovviamente che va inteso il termine: è certamente più vasta e articolata  la gamma  delle problematiche che lo inquadrano, un sentimento  abnorme  che nasconde comunque spesso anche forti e inquietanti quanto immotivati “sensi di colpa” per non ritenersi all’altezza, per avvertirsi inadeguati,  o  comunque diversi da come gli altri vorrebbero immaginare che si fosse.

In ogni caso, tutti gli studiosi, fra i  quali Goffman, Modiglioni e Edelmann,  indipendentemente dal posizionamento del loro sguardo (sociologico, psicologico o etnologico a seconda del percorso di analisi e di studio seguito)  sono concordi  nel legare strettamente il vissuto dell’imbarazzo ad eventi che mettono in crisi l’immagine dell’individuo (sia davanti agli altri che di fronte a se stessi)  e nel considerare di conseguenza lo stretto rapporto esistente fra ciò che in qualche modo viene a turbare l’equilibrio e le condizioni e il luogo in cui ciò si verifica, perchè di norma le situazioni che generano imbarazzo sono soprattutto  quelle in cui mancano modelli  espliciti di comportamento, quelle cioè dove non è ben chiaro il tipo di “risposta”che dovrebbe essere fornita, cosa questa che genera quanto meno una insicurezza, o peggio una pericolosa certezza  di aver comunque violato (o semplicemente messo in pericolo) un dogma o una regola sociale e comportamentale  condivisa dalla maggioranza delle persone con le quali in quel momento ci troviamo ad interagire.

Il mio essere nato nel lontano 1942 e l’aver vissuto dunque gli anni giovanili della mia omosessualità ancora non dichiarata ma da sempre percepita (e immaginata come una terrificante “perversione” innaturale) in anni in cui non c’era alcuna assoluzione possibile, non poteva che causarmi frequenti imbarazzi, poiché anche innocui  e involontari riferimenti criticamente espressi riferiti a qualcosa che riconoscevo presente in me, finivano per crearmi mostruosi patemi e ancor più pesanti costrizioni punitive per non essere capace di spegnere la tentazione, oltre che per il terrore di essere costretto prima o poi a dover uscire allo scoperto mio malgrado.

Anni terribili quelli, perché davvero non esisteva scampo né rifugio a questa “dannazione”: una categoria di dissoluti e viziosi – così eravamo genericamente definiti - da cui era necessario difendersi per non essere corrotti o contaminati. Nessun conforto, nessuna comprensione se solo si fosse anche lontanamente immaginato che… Peccatori mortali per la chiesa (e in questo purtroppo poco è davvero cambiato se non la nostra  orgogliosa consapevolezza che fortunatamente ci pone ormai quasi sempre al di sopra del “(pre)giudizio”), debosciati o malati persino per la medicina ufficiale (con deficienze mentali o ormonali  a seconda delle angolazioni, ma comunque da curare per essere “recuperati” e “guariti”); ignorati ed esclusi da una società rigidamente ancorata alle proprie ancestrali paure, tutt’altro che pronta per riconoscerci corrispondenti e analoghi pur nella divergenza dei desideri… destinati alla doppiezza, al sotterfugio alla inevitabile totale “invisibilità” (o peggio ancora alla “negazione” di se stessi). Per poter esistere o semplicemente “sopravvivere”, si doveva infatti per lo meno contare  su un aspetto che riuscisse a celarci, “controllare” non solo i gesti o la voce per evitare il possibile “falsetto”, ma persino le “pulsioni” spontanee della carne (pericoloso frequentare luoghi in cui ci si spogliava insieme con altri adulti maschi, perché  uno sguardo di troppo in quella “particolare” proibita parte del corpo, o un’incontrollata subitanea erezione, potevano tradirti e condannarti per sempre  ad essere relegato nella schiera dei “reietti, quella dei meno fortunati che portavano indelebili l’onere  di sembianze e atteggiamenti troppo effeminati, e per questo motteggiati e scherniti, additati e messi alla berlina).

Ecco: questa è stata l’imbarazzante condizione della mia gioventù., costretto a tentare di vivere una vita che non poteva essere la mia per non essere risucchiato nel mucchio…

Quei tempi ormai sono lontani, superati, ma quei “particolari” stati d’animo rimangono ancora indelebili a testimoniare i profondi traumi che ho dovuto subire e che mi hanno certamente forgiato ma lasciando comunque profonde ferite. Forse è per questo che ho avuto enorme difficoltà a confrontarmi  con il sentimento dell’ imbarazzo, a parlarne a viso aperto (a un certo punto avevo quasi deciso di desistere tanto era radicata in me la memoria di un doloroso passato troppo infarcito da quel sentimento, ma poi ci ho ripensato: sarebbe stato un atto di vigliaccheria estrema che mi avrebbe  - quello sì – fortemente imbarazzato, ed ho deciso di superare l’enpasse).  

Eccomi allora qui pronto a confrontarmici prendendo spunto da una pellicola  come In & Out che per la verità non mi aggrada nemmeno molto, ma che “racconta” scene e situazioni – sia pure in un’ottica più “piaciona”  che profonda, e soprattutto così politicamente corretta da non voler minimamente disturbare i benpensanti, organizzata soprattutto per farli semmai sorridere (o peggio sogghignare) - che riflettono però momenti, stati d’animo e condizionamenti nei quali possono essere benissimo traslati tutti i miei pesanti, anche orribili imbarazzi vissuti in quegli anni lontani.

 

E’ a quel film e al suo protagonista (un bravissimo, convinto e convincente Kevin Kline) che faccio allora riferimento (poiché in ogni caso poteva essere migliore, ma “muove” comunque molti tabù ed è già importante che lo faccia).

Sarebbero centinaia gli “imbarazzanti” episodi che potrei tirar fuori dal cilindro, tutti con diretta assonanza con ciò che nella pellicola viene narrato, a partire dalla imbarazzata “scoperta” trasmessa in diretta Tv… dovendo comunque operare una scelta, preferisco fermarmi a “raccontare” l’imbarazzante e imbarazzato rapporto con mia madre, alla quale non mi sono mai dichiarato: conoscevo troppo bene il suo pensiero al riguardo per aver il coraggio di farlo. Maturando e “crescendo” lo avrei certamente fatto,,ma è venuta a mancare quando avevo solo 24 anni, e in un certo senso quella morte prematura  rappresentò per me (è imbarazzante e crudele ammetterlo ancora oggi) l’agognato raggiungimento di una libertà e una indipendenza totale, ormai “alleggerito” dalla necessità  di dover prima o poi  confrontarmi con il “tradimento” delle aspettative  e delle speranze che lei aveva riposto in me,  che come ben sapevo passavano anche dalla voglia di avere un nipotino (non sono un mostro, credetemi, ma è questo l’imbarazzante pensiero che prevalse persino sul dolore quando mia madre venne a mancare). Credo  infatti che per una donna della sua generazione con rigidi e radicati concetti di integralismo cattolico, avere un figlio dell’”altra sponda” rappresentasse la più grande iattura che il destino potesse riservarle, più grave ancora  di quella di averla resa vedova e malata solo dopo pochissimi mesi di matrimonio. Forse per questo aveva scelto (e io l’assecondavo con imbarazzante protervia) di fingere di non capire, di tenere nascosto il suo rovello per non essere  costretta, affondando direttamente il problema, ad “accettare” una verità che la sgomentava e che si illudeva di esorcizzare negandola, così come a me facevao comodo in quegli anni far finta di credere che tutto fosse in ordine (nonostante gli sguardi ed i sospiri) visto che non ero ancora pronto ad ammettere pubblicamente  la mia vera natura, che consideravo ancora come un esecrabile, vergognoso “difetto genetico” da mantenere gelosamente celato. Ma le madri sanno sempre molto di più di quanto sono disposte ad ammettere, ed anche la mia non ha certo fatto eccezione: in fondo a se stessa – ne ho la certezza matematica – ha sempre intuito (o, diciamo meglio, saputo) che in me qualcosa andava storto, che ero “un diverso”…. Non ne ha mai fatto esplicito cenno (solo “quegli” imbarazzanti sguardi e quei sospiri più eloquenti delle parole). Soltanto una volta non ce l’ha proprio fatta a contenere il “tarlo” che le consumava l’anima … e io non posso adesso che rivivere di nuovo come troppo spesso mi capita ancora di fare, l’imbarazzante, doloroso momento di quella circostanza ormai lontanissima ma che non potrò mai dimenticare.

Risento infatti – come se venisse “piantato” in questo esatto momento -  il pugnale di ghiaccio che mi trafisse il cuore, e mi fece defluire violentemente  il sangue dalle venne quando (e non avrò avuto più di 17 anni)  con un volto da Madonna dei Sette Dolori e un filo di voce carico di pena, mia madre mi domandò a bruciapelo, nell’unico modo in cui lei poteva farmi una richiesta del genere, se ero un uomo o una donna.

Mi stavo pettinando davanti allo specchio e diventai all’improvviso dura pietra. Avrei potuto cogliere l’occasione, ma non lo feci… troppo codardo e vigliacco per farlo… Era più”comodo” anche per me imbarazzarsi e tacere. Mi era sembrato persino di cogliere (forse ero io che “volevo” immaginarlo” per non “soccombere” definitivamente sotto il pesante fardello) una silenziosa impronunciata supplica:. Dimmi che mi sto sbagliando, che le mie  preoccupazioni sono infondate,  che è solo un’eccessiva timidezza che ti opprime…! Non era così e lo sapevo da sempre… ma fare finta era più comodo che ammettere…

Con la morte nell’anima e un sorriso striminzito stampato di sghimbescio sulle labbra che mi costava sudore e sangue, assecondai  quella muta preghiera  che avevo voluto percepire e fare mia. Senza nemmeno voltare la faccia, ma guardandola riflessa nella specchiera, la rassicurai codardamente con un semplice, tremolante “ma che cosa ti viene in mente mamma, sono normale. A cosa vuoi alludere? Non vedi? E’ tutto a posto, stai tranquilla. Chi ti ha messo in testa certe idee?”

Avrei voluto sprofondare, sparire dalla faccia della terra, nascondermi, ma continuai invece a pettinarmi simulando indifferenza, con la mano diventata di piombo e i denti del pettine che quasi si conficcavano nella cute. Lei  non replicò: mi guardò ancora un attimo con infinita tristezza, annuì con la testa e se ne andò in silenzio, ed io persi definitivamente l’occasione, di nuovo rinchiuso in un imbarazzante silenzio che non sarei riuscito a infrangere nemmeno nei terribili successivi momenti della sua agonia che non potevano ammettere altri indugi.

 

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