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Quanto mi costi, Gary
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Oh, come mi piacerebbe sapere a quanti abbonamenti streaming per vedere film e serie tv avete accesso. Non per farvi i conti in tasca (mi basta fare i conti nelle mie, di tasche) ma per capire come offrirvi, qui su filmtv.it, un servizio migliore. E sapere a quali servizi avete accesso sarebbe già un buon punto di partenza.

Nello stile di questa newsletter inizio io a mettermi in gioco. Poi, con maggiore calma, dopo le feste chiederò al tecnico di filmtv.it di mettere online una pagina, tra le vostre preferenze, in cui tenere aggiornata la lista dei servizi streaming che usate regolarmente.

Ovviamente io ho accesso - pagando, non pensate che siccome lavoro nel settore abbia diritto a chissà quali agevolazioni - a molti servizi streaming in abbonamento. Quel che mi spinge ad abbonarmi non è solo il fatto di guardare film e serie (che comunque rappresentano la quasi totalità del tempo che dedico al cosiddetto intrattenimento) ma anche il desiderio di vedere come le piattaforme sono organizzate, come mostrano, cioè, quello che hanno, il loro catalogo. Ho un interesse al limite della malattia per l’architettura delle informazioni, mi piace vedere come sono organizzate e, soprattutto, come vengono mostrate all’abbonato. Quindi, quando c’è un nuovo servizio, a prescindere dal contenuto che offre, io devo, DEVO, dargli un’occhiata.

Andando al sodo, io ho accesso a Netflix, Prime Video, MUBI, Apple TV+, HBO (vivo in Spagna) e Disney+. E negli ultimi sei mesi quasi tutti hanno aumentato in maniera consistente il prezzo. L’ultimo tiro mancino me lo ha tirato proprio AppleTv+ che ha aumentato il costo dell’abbonamento da 6,99 a 9,99. Un aumento del 50% in una sola botta.

L’argomento mi interessa non tanto per fare il micragnoso o per fare il punto sugli elementi che sfuggono ai panieri su cui si misura la reale inflazione, ma perché gli aumenti di prezzo sono spesso la punta visibile di movimenti sotterranei che introducono e fanno intravedere le evoluzioni di un intero mercato.

Certe volte sono semplici assestamenti con cui le aziende cercano di raddrizzare un business plan, a volte sono messaggi diretti al mercato azionario e altre volte alle banche che forniscono il credito, ma tutti gli aumenti degli ultimi mesi, visti nel loro insieme, raccontano anche qualcosa di diverso.

Per esempio dicono che quando un operatore nel campo dei media raggiunge molti utenti in un determinato mercato, si trova di fronte a svariate possibilità. Può continuare ad offrire un servizio in cui la priorità è rappresentata dalla soddisfazione dell’utente, il che significa produrre contenuto di alta qualità e crescente complessità per nutrirlo, aggiornando i prezzi degli abbonamenti al rialzo, oppure mettere in campo altre offerte, più economiche, vendendo la nostra attenzione agli inserzionisti pubblicitari.

Questa dissociazione, questa doppia strada, è ben rappresentata dalle azioni che stanno intraprendendo sia Netflix che Disney+, sebbene con un piccolo margine di ritardo.

Netflix, nell’ultimo anno, ha alzato i prezzi degli abbonamenti più pregiati, ha messo sul mercato un’offerta a prezzo ridotto integrato dalla pubblicità e ha stretto le maglie della condivisione delle password per indurre i suoi abbonati ad imboccare una delle due strade (abbonamento pregiato, abbonamento economico) soprattutto perché così facendo sarebbe riuscito a disegnare meglio, quelli bravi dicono profilare, l’identikit dei suoi spettatori.

Alla Netflix del futuro, anzi del presente, interessa poco avere profili su cui vengono visti indiscriminatamente anime giapponesi, Better Call Saul, La casa di carta e commedie sentimentali natalizie. Meglio avere più profili con perimetri chiari che una specie di blob in cui entra di tutto. Gli inserzionisti pubblicitari devono sapere con chi hanno a che fare, devono sapere CHI sta guardando COSA, possibilmente anche QUANDO.

L’ultima mossa di Netflix, per certi versi epocale, che completa questa transizione, o meglio che completa il totale affiancamento dei due modelli di business, è recentissima: la pubblicazione di un report semestrale (gennaio-giugno 2023), che mostra esattamente le ore di visione di tutti gli show e i film originali (e in licenza). Se qualche giorno fa Netflix ha fatto la cosa che nella sua storia non aveva mai fatto e che in molti gli hanno sempre chiesto, di certo non è stato per soddisfare la curiosità di qualche appassionato di dati, né per gli spettatori. Lo ha fatto per mostrare al mercato pubblicitario (centri media, inserzionisti globali) la mercanzia. E la mercanzia è composta dalle ORE che noi passiamo su Netflix. La mercanzia, detto brutalmente e senza retorica, siamo noi.

Il report, che è pubblico e si può scaricare qui, è strutturato in maniera molto basic: titolo, data di uscita, ore di visione. D’altronde questa è la versione light, quella per il pubblico, non quella per gli inserzionisti che sicuramente aggiungerà anche altri tipi di informazioni sul contenuto e sugli spettatori.

In cima alla classifica c’è la serie tv The Night Agent, data di rilascio sul mercato globale a fine marzo 2023, con 812 milioni di ore viste. Si tratta di una serie tv composta da dieci episodi della durata di circa un’ora ciascuno. Ragionando con l’accetta possiamo dire che la serie tv è stata vista integralmente da 81 milioni di persone in tre mesi. Includendo in questo calcolo un po’ brutale sia quelli che l’hanno abbandonata strada facendo sia quelli che l’hanno parzialmente riguardata.

Siamo di fronte ad una audience globale immensa, sicuramente unita da qualche elemento demografico e culturale, che sicuramente rappresenta un valore enorme in termini di possibili investimenti pubblicitari. Condividendo questi dati Netflix sta ottenendo diversi risultati. Sta tranquillizzando il mercato azionario e gli investitori (“sì, spendiamo una marea di soldi ma state tranquilli!”) e sta richiamando l’attenzione degli inserzionisti sui numeri. E non mi stupirei se nell’arco di qualche anno Netflix se ne uscisse con un palinsesto (quasi) gratuito pieno di spot. Mirati, ovviamente.

Tornando al report, sono restato abbastanza stupito, per esempio, nel vedere che serie tv come Breaking Bad e Better Call Saul, ormai decisamente vecchiotte, sono ancora in grado di sviluppare un numero altissimo di ore di visione. La somma delle ore dedicate dagli utenti Netflix a Breaking Bad è di circa 500.000.000. Non sono affatto poche per una serie che ha visto la luce nel lontano 2008 e che è terminata da dieci anni.

Non credo che una serie come Breaking Bad, pur nel suo status di classico imperdibile, sia la molla su cui Netflix fa leva per acquisire nuovi abbonati, ma, sulla base di questi numeri, è chiaro che una sua riutilizzazione in modalità free (o abbonamento a basso costo) con spot pubblicitari potrebbe ancora dare delle notevoli soddisfazione economiche ai detentori dei diritti.

Una volta, ma anche solo dieci o quindici anni fa, una casa di produzione cinematografica, dopo aver sfruttato un titolo nelle sale cinematografiche, poteva allungare la vita economica di un prodotto grazie all’homevideo e, soprattutto, vendendo i diritti alle tv di mezzo mondo. Ora piattaforme come Netflix, Disney+ e Prime Video possono decidere di sfruttare le seconde e terze vite di un film o di una serie in maniera diretta, senza intermediari mantenendo il pieno controllo del prodotto e degli spettatori. Cioè noi, tutti censiti e registrati, con le nostre cronologie di visione, le nostre watchlist, tutti belli “profilati” e pronti a sorbirci gli spot ritagliati su misura per i target ai quali apparteniamo.

Ora, per quanto mi costi caro tutto questo ambaradan di abbonamenti (pur sapendo di non fare testo in termini statistici proprio perché con questa materia ci lavoro) alla fine io preferisco pagare. Non tanto perché condivida l’idea diffusa che la pubblicità sia un male - anzi, se ci deve essere, ritengo sia meglio che sia diretta proprio a me, perché quindici spot di medicinali su La7 durante Propaganda Live, mi scocciano abbastanza - ma perché una volta che mi sono abituato a vedere film e serie senza interruzioni pubblicitarie mi sembra dura tornare indietro. E anche perché mi piace l’idea di poter vedere le cose appena escono. Anche se è solo un’idea, perché poi, spesso, guardo film vecchi o perdo tempo a cercare oggetti smarriti negli anfratti delle categorie dei cataloghi.

Paradossalmente, infine, dopo la sbornia della modalità buffet, mangia tutto quello che puoi, ti sforniamo intere serie da dieci episodi tutte insieme e tu le guardi tutte di seguito, ora certe serie tv vengono rilasciate con il contagocce seguendo rigidi calendari settimanali, mutuando un po’ quello che è da sempre una caratteristica della tv lineare. Strategia chiarissima per tenere gli abbonati paganti agganciati alle novità più succose. Come Slow Horses su AppleTv+, con un Gary Oldman di una bravura mefistofelica al quale devo assolutamente dedicare la copertina di questo testo.

Quindi niente, mi tengo AppleTv+ e tutto il resto.
Ci ripenserò al prossimo aumento.

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