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Barcellona, quartiere universitario, primi giorni di settembre. Nella piazza della residenza il sole filtra attraverso gli alberi, il quartiere è a dir poco vivace ed eterogeneo. Ci sono studenti, vecchi seduti sulle panchine, signore che fanno la spesa nei negozi economici, immigrati che camminano veloci. E tanta polizia, sempre e ovunque (i Mossos d'esquadra + la Guardia civil perché siamo in Catalunya, ragazzi).

Mia figlia ed io siamo fermi, in piedi, davanti ad un supermercato. Siamo lievemente distanti, tipo a mezzo metro uno dall’altra, lei guarda il suo cellulare, io sono perso nello studio, ma cosa dico "studio", io sono perso nel flusso della situazione. Sto vivendo uno di quei meravigliosi momenti di estrema connessione con il mondo e mi sembra di sentire tutto - il vento sulla faccia, la luce che mi scalda il braccio, le parole al telefono di quel signore che mi passa di fianco trafelato - e di vedere tutto - la cucina della signora con le arance che escono dalla borsa della spesa, la solitudine del vecchio che fuma sulla panchina, l’amore di quel giovane vagabondo, seduto sul marciapiede, per il suo minuscolo chihuahua.

Poi, qualcosa si rompe e, in un sussulto paterno, inizio a pensare che non deve essere un quartiere facile in cui vivere, tutti i giorni. Sebbene non ci sia alcuna traccia di ostilità o di rischio evidente inizio ad immaginare come può essere camminare di notte per quelle vie oscure e dense di esistenza e penso a mia figlia che ha vissuto su un’isola tranquilla per vent’anni e che dovrà fare più attenzione alla debordante vita che le scorre di fianco.

Con un impercettibile slittamento di prospettiva mentale, inizio a guardarla e noto che la sua borsa a tracolla ha un'apertura veramente invitante dalla quale si vede chiaramente il portafoglio e così, quasi soprappensiero, allungo una mano per aggiustare, per chiudere un po', la cerniera. Mentre compio questo gesto, questione di un paio di secondi, sento chiaramente che qualcuno dice "Hey, what are you doing, man?", "Man? What are you doing?". Io guardo verso la direzione da cui proviene la voce e mi accorgo che il ragazzo viaggiatore un po' vagabondo sta muovendo dei passi decisi verso di me. Anche il cagnolino, subito dietro. Io istintivamente mi guardo alle spalle, ma no, il tipo ce l’ha chiaramente con me. Si avvicina e a quel punto io lo guardo e gli dico, "Tutto ok, grazie, sono suo padre, non la sto rapinando!" Anche mia figlia dice "Yes, yes, he is my father!". A quel punto il suo passo si ammorbidisce, inizia a sorridere, mi si avvicina e mi abbraccia dicendo "I’m sorry! I'm sorry, man!". Anche il cagnolino sembra rasserenato e insieme, come se nulla fosse, se ne tornano a sedere per terra, a scambiarsi sguardi d'intesa.

Ovviamente questa scena, un po’ da film, è già diventata cult e, come succede alle storie belle, viene raccontata ogni volta con l'aggiunta di un nuovo particolare (come il fatto che io ero vestito abbastanza male e che era assolutamente possibile, se non necessario, scambiarmi per un borseggiatore). Lo spunto, poi, è servito per innestare una riflessione sulla prudenza, sull’accortezza e sul fare attenzione allo zaino e alle borse, perché se un tipo qualsiasi ha sentito l’esigenza di intervenire vuol dire che la questione rapine a Barcellona, almeno in quel quartiere, deve essere abbastanza sentita e la gente, al di là degli interventi della polizia (e delle pene più o meno elevate), ha iniziato ad intervenire in prima persona.

Ho ripensato a questo episodio in questi giorni di rabbia e dolore, dopo l'ennesimo, il centoduesimo per l'esattezza, femminicidio dell'anno, mentre cercavo di farmi strada tra la ridda di proposte e interventi "istituzionali", tra gli articoli dei maschi che è-colpa-anche-mia, quelli che io-non-c'entro-niente e quelli che siamo-fatti-così. Fatte le ovvie, dovute, proporzioni a me sembra che al di là delle iniziative, delle reazioni, dei correttivi, che è giusto aspettarsi da parte delle istituzioni, incluso il ripescaggio del piano "Educare alle relazioni", ci sono anche tante, tantissime, cose che possiamo fare tutti, subito, che anzi dovremmo già fare da un bel po'.

Cose piccole, inizialmente, come intervenire se qualcuno alza troppo la voce e se ci troviamo ad essere testimoni di una discussione che prende una brutta piega, come smettere di tollerare le trite battutine sessiste del collega o iniziare a smascherare il maschilismo che si annida negli atteggiamenti del più insospettabile tra gli amici, anche se è il nostro amico di una vita. E iniziare a dire a tutti "Ehi amico, cosa diavolo stai dicendo, se non la smetti ti scateno addosso il mio chihuahua". Far sentire che c'è qualcosa su cui siamo inflessibili, che la smettiamo di fare spallucce o di ridacchiare poco convinti, sarebbe già un buon inizio, non una soluzione, certo, ma un segno. E i segni, se cominciano ad essere tanti, contano.

Certo è più complicato, anche perché la difesa “Sono suo padre” rischia di non essere sufficiente. Anzi, può essere un'aggravante. Non per niente la violenza di genere poggia le sue solide basi sul patriarcato.

E infatti, la prossima, volta, io, queste mani di padre, penso che me le terrò in tasca. Per un sacco di buoni motivi.


p.s. Foto tratta da Fuori orario di Martin Scorsese. Inizialmente pensavo al malinteso, alla ronda notturna, alla caccia al ladro. Ma poi ho trovato questa e mi è sembrata adatta.

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