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CinemA.I. #1 - Un film di Eric Rohmer con Anouk Aimée.
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Che poi altro non è che il passato remoto di cinema(tografa)re. (Oltre che la realizzazione di una negazione.)

Film che non esistono e che ora possono farlo, richiamati alla vita dalla strofa di una canzone.

Ovviamente solo con “Missed Opportunities”, il proverbiale pezzo (racconto breve) che Jonathan Lethem dedicò a Jerry Lewis pubblicandolo su McSweeney’s a cavallo dei due secoli/millenni, di post se ne potrebbero riempire una trentina: per restringere il campo mi “limiterò”, per l’appunto, alle canzoni (col sospetto che si potrebbero raggiungere anche in questo caso le tre decine senza troppo impegnarsi).

 


• “Lumière Sans Fin” di Eric Rohmer (99', b/n, 1.66:1, sonoro, 1961) con Anouk Aimée, Giovanni Delrivo, Adolphe Menjou, Gérard Barray.

Un ex motociclista professionista riciclatosi come speculatore edilizio di stanza in Costa Azzurra mentre sta per portare a termine il suo progetto più ambizioso, un villaggio autonomo vista mare sorto intorno ad un centro di ricerca sulla longevità con annessa clinica privata, s’innamora della figlia di uno dei co-finanziatori e futuro ospite del complesso residenziale-ospedaliero costantemente pedinata da un misterioso individuo…

L’opera seconda nel lungometraggio di Eric Rohmer, girata nel 1960-’61, appare oggi quanto già allora quale un corpo estraneo, uno dei relativamente non infrequenti tali, nel bel mezzo del compimento dei Racconti Morali e, parimenti mantenendosi spiccatamente al di fuori di questo così come degli altri suoi due cicli, vale a dire le Commedie e i Proverbi e le Quattro Stagioni, scardina le regole del gioco in un processo creativo che – per alcuni versi con dissimilità di forma/stile e sostanza/contenuto, ma non d’irruente forza (contro)rivoluzionaria, che rimarrà la medesima – rimetterà in scena una prima volta, subito dopo essersi dedicato a von Kleist, quasi vent’anni più tardi, con “Perceval le Gallois”, un lustro dopo la personale rilettura di Robert Bresson del Ciclo Arturiano con “Lancelot du Lac”, e una seconda, altri vent’anni abbondanti dopo, con “l'Anglaise et le Duc”, e che in questo primo tentativo di destrutturare (costruttivamente) la destrutturazione (costruttiva) della Nouvelle Vague, allora concettualmente in piena espansione (Truffaut, Resnais, Chabrol), situandosi temporalmente fra “À Bout de Souffle” e “Vivre Sa Vie”, anticipa di un lustro proprio le intuizioni alphavilliane di Jean-Luc Godard , proseguendo con l’imbastardimento del movimento/corrente innestandolo, com’era già accaduto in passato, col genere, in questo caso la fantascienza distopica, privandola però quasi del tutto dell’elemento noir, difatti solarizzando - quasi ante-litteram ballardianamente - il tutto mischiandola con l’Hitchcock più technicolorizzato (virandolo in bianco e nero) di “To Catch a Thief”, e, in vece di Jean Seberg e Anna Karina, imperniando la non/contro-storia alternativa sul volto-corpo modì-avanguardista di Anouk Aimée, che (oltre a regalare un fulmineo nudo prima di quello in “Justine” di George Cukor) in quel periodo d’iperattività performativa trovò un paio di mesi di tempo, trasferendosi da “la Dolce Vita” felliniana alla Costa Azzurra, prima di “tuffarsi” nei set di Demy, Lattuada e De Sica, condividendo le riprese col non attore e one film man Giovanni Delrivo (si dice – lui stesso lo disse, prima di ritirarsi a vita privata in Guyana Francese – imparentato alla lontana con un altro nizzardo, tal Giuseppe Maria Garibaldi), bellimbusto dotato di fossetta sul mento, fisico atletico e sguardo da malnatt, via di mezzo tra Alain Delon, Jean-Paul Belmondo, Lino Ventuira, Yves Montand e Jean Marais: per dire, eh. Due parti secondarie (ma solo in quanto a minutaggio) per un wellesiano Adolphe Menjou alla sua ultima, magnifica interpretazione, e per Gérard Barray, qui forse al suo film (e ruolo: malvagio e subdolo) migliore – se si esclude un oscuro dittico kraut-western di Robert Siodmak di metà anni sessanta – dopo “Abre los Ojos” di Alejandro Amenabar di quasi quarant’anni successivo. Non un capolavoro (quelli verranno, e in folta schiera), ma un oggetto strano, e attraente.

 


• “L” – Baustelle (F.Bianconi) – “Amen” – 2008

[…] Atomi di tenerezza dei giorni qualunque
Anima estranea agli umani
Ai colori dei quark
Alla musica

Tracce di Laura dovunque
Pace che torna in Iraq
Gioia che afferri improvvisa su un piccolo seno
Bambola di Modigliani
In un film di Rohmer
Con Anouk Aimée

Luce senza fine

 


I fotogrammi sono stati realizzati tramite il servizio gratuito Microsoft Bing Image Creator basato sull’algoritmo di intelligenza artificiale DALL-E 3 di OpenAI (non integrato con ChatGPT, la cui ultima versione, la 4ª, a pagamento, è impressionante; mentre un altro non male, tra i "tanti", e sempre in abbonamento, è Lexica): dopo aver inserito una stringa di testo/comando (prompt) il più generica e asettica possibile (nome del regista e dell’attrice e poco altro) in base alle selezionate immagini sintografiche risultanti (eliminando quelle che presentavano mani con più di 5 dita, senza offesa per i polidattili, mentre per l'annoso problema, sempre relativo alle mani, che in questo caso tendono a spuntare a caso, e chiedo scusa per l'anacoluto, beh, quello è un infernale incubo alieno-allucinatorio, ovvero: non c'avevo voglia di photoshoppare con gli editor free) ho scritto prima la recensione e poi la sinossi della trama. (E poi ok, va beh, sì: questA.I. non deve aver ben chiaro in capoccia sua neppure chi sia Anouk Aimée: come tutte le robe "gratis" vale quel che vale.)

La serie proseguirà – non so con quali tempistiche – con (ovviamente) “Al Cinema” di Battisti/Mogol da “Una Donna per Amico” del 1978. Poi si finirà oltr’alpe, oltre Manica e oltre Atlantico. Con calma, ché le I.A. non hanno fretta. O almeno credo e spero.    

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