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Al Bano e Nino, gli eponimi del musicarello
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Sia benedetto, ma anche maledetto Prime Video, che, con la sua offerta sconfinata (e spesso dispersiva, caotica, tendente all’irrazionalità, tanto che per orientarti secondo gusti e desideri occorre una bussola cinefila non delle peggiori), consente il recupero di generi negletti e dimenticati, già riposti in un angolo, ritenuti non praticabili eppure storicamente significativi, segni di un tempo che non c’è più e che, quando c’era, già mostrava i suoi limiti di dialettica e senso.

Diciamolo subito: nessuno obbliga nessuno a questa operazione di archeologia ed immersione nei fondali del kitsch spinto; eppure chi ama il cinema non è esente da intervalli, fieri e scanzonati, di masochismo consapevole e ludico. Vediamo dove riesce ad arrivare l’istinto di conservazione (e concentrazione), andiamo alla (ri)scoperta del paleolitico declinato sotto forma di “musicarello”.

Tralasciando l’evergreen Gianni Morandi, e le sue frequenti incursioni nel cinema diremmo impegnato (fu reclutato anche da un Germi ormai alla frutta, ma sempre titolare della meritata patente di autore ), dopo una carriera passata in gramaglie da soldatino dal ciuffo composto e dal cuore d’oro, o da ragazzone imbambolato e (naturalmente) cantante e salmodiante buoni e infiniti sentimenti, due sono gli eroi eponimi del genere, due uomini del Sud, due ugole maturate e infornate al sole, due maschere ancora in piedi, perennemente visibili, chi più chi meno, sul tapis roulant della celebrità e, almeno in un caso, del gossip che si autoalimenta e invade menti in vacanza o rabdomanti della soffice leggerezza del disimpegno. Chi, se non Al Bano (oggi Carrisi, ieri solo nome – e quando basta solo il nome siamo in presenza di una evidente fenomenologia della celebrità, ammettiamolo) e Nino D’Angelo potevano infarcire con i loro acuti a prova di cristalleria, con la loro recitazione che accompagna le battute, le sprona, le sottolinea e le esalta (anche quando la battuta è un sì o un no, ma ci torneremo), pellicole scritte con la mano sinistra da sceneggiatori evidentemente alle prese con notti insonni in cui il tempo poteva e doveva essere impegnato in un’estasi creativa che produttori scaltri il giusto avrebbero incanalato lungo la comoda strada del genere (facciamo un musicarello, tre quarti di trama, 1/12 di malizia per famiglie, il resto canzoni e corde vocali aperte, aeree, spianate, urlanti e vocianti, up and down lungo le strade rese possibili dal pentagramma)?   

 

Due titoli, due capisaldi del musical alla sfogliatella o al Primitivo di Manduria. “Nel sole” e “Quel ragazzo della curva B”: storie di amori, discesa agli inferi, riscatto, agnizione urlata (anzi cantata) in visibilio, in delirio da hurrà. C’è anche una trama, naturalmente, perché di film si tratta, non di trattatelli sintetici in stile Bacio Perugina (per quanto…). Al Bano, il ragazzo povero che si finge ricco per conquistare la contessina Lorena (galeotta fu la fiction, così pare, perché se è vero che la realtà supera la fantasia, è assolutamente assodato che, malinconie leccesi e Lecciso di là da venire, il ragazzo del Salento rapì il cuore dell’americana di cotanto padre), ma poi si vergogna della verità e allora vaga in una Roma deserta, cantando le proprie pene sofferenti e progressive. Ma Roma non lo sta a sentire, gli spettatori sì. E allora Al Bano/ragazzo povero ma onesto (tra l’altro “primo della classe” che si esprime come un libro stampato, doppiato da qualcuno che disdegna la Puglia, e questo è un male, diciamo noi osservatori smaliziati e duri e puri) cade in un vortice di perdizione, si fa amante di una bellissima signora dell’alta borghesia (!), annoiata e leggera e che pure rivelerà un volto diabolico (musicarello contaminato con il fotoromanzo, dite voi se non trattasi di colpo di genio). Bueno, può sembrare strano ma il lieto fine trionferà. Al Bano canterà (ancora all’aperto, perché le balere sono per i cantanti confidenziali ormai affermati, sono roba per Buongusto o Buscaglione), solo, “nel sole”. Dietro una finestra uno sguardo innamorato, al di qua dello schermo un aborto di sbadiglio.

 

Romina Power, Al Bano

Nel sole (1967): Romina Power, Al Bano

 

Ok, ci stavamo dimenticando di Nino D’Angelo. Errore esiziale, rimediamo. L’ex guaglione, occorre riconoscerlo, ha saputo darsi un atout di dignità letterario-canzonettistica. Il primo passo è stato gettare alle ortiche il capello spigato, anche molto simile ad un cesto di banane, e ripiegare su un’acconciatura con nuance dorate ma adulte; quindi scavare all’interno dello sterminato serbatoio di sonorità partenopee per rielaborare accenti e spunti di buon impatto e forza evocativa. Ma Nino nacque come eroe nazional-popolare-fumettistico del musicarello. Un ragazzo e una ragazza, forze che tendono a separarli, anche qui problemi di ogni tipo e genere (musicarello contaminato con la sceneggiata, altro colpo di genio), infine (ma no…) lieto fine, baci e sussurri, sorrisi e occhi al cielo. Nell’opera (virgolette a piacere) che stiamo analizzando Nino è un capo ultrà buono (sceneggiatori in vena di ossimori paradisiaci) che vuole ripulire la curva B dai drogati e violenti. Ma si becca una coltellata (la scena in cui lo portano in spalla all’ospedale, lui con un viso da puttino sofferente se non morente, è la versione “a vongole” della Deposizione caravaggesca) da cui guarisce immantinente, in tempo per volare a vedere lo scudetto del Napoli, raggiunto in un amen sugli spalti da mamma e fidanzata, ormai convertita dall’amore per Nino all’amore di questi per la casacca azzurra (“O me o il Napoli”, aveva detto poco tempo prima. Brutta ingrata, pensiamo noi, che di domenica qualcuna, anche se non era Rita Pavone, l’abbiamo lasciata sola). Gol, fermo immagine, lieto fine, stop (canzone finale, pure orecchiabile ma guarda un po’…)

 

locandina

Quel ragazzo della curva B (1986): locandina

 

Si può scherzare quanto si vuole su film del genere e su questo genere di film. Ma non si può negare, con assoluta onestà intellettuale, che erano quanto di più onestamente e scopertamente popolare potesse passare il convento e dunque possedevano una loro dignità (magari di seconda fila ma perché fare classifiche della dignità?), testimoniata, avallata, certificata dall’ottimo successo di pubblico. Prodotti che generavano basica empatia, riconoscimento totale del proprio ballerino destino di uomini, identificazione con l’eroe che nessun libro di storia avrebbe cantato ma che sarebbe sicuramente rimasto nel cuore e nella memoria di quanti lo avevano conosciuto. Al Bano e Nino, Nino e Al Bano: canta che ti passa, urla che ti va bene, straziati che vai a vincere. Amor omnia vincit, Dio, Patria e Famiglia, mogli e buoi dei paesi tuoi, il sentimento scala le montagne, e non c’è montagna o Maometto che tengano. Un caleidoscopio di luoghi comuni, veicolato anche da insospettabili ad inizio carriera (Enrico Montesano, Loretta Goggi, Biagio Izzo, per tacere dei sempre godibili Franco e Ciccio), un trionfo di  déjà vu e stereotipi, anni ’60 ed anni ’80 uniti in un devastante abbraccio di zucchero e miele. Eppure, a saper tutto questo, a non lasciarsene influenzare, sono film che possono essere visti.

Con un grande però finale: la recitazione. Un cantante è un cantante, un attore è un attore. Se poi un cantante ontologicamente non attore è servito da una sceneggiatura che, nel tentativo di sfrondare, diventa al contrario declamatoria e tranciante, ecco il disastro. Al Bano e Nino D’Angelo non recitano: accompagnano le battute con occhi, ciglia, zigomi, Si trasfigurano per essere convincenti, aggrottano tutto l’aggrottabile, socchiudono il socchiudibile, strizzano lo strizzabile. Una mimica facciale oscillante tra la paresi e l’esplosione alla Marcel Marceau. Immaginatevi Mastroianni che, nel bel mezzo di “8½”, accenna “Fatti mandare dalla mamma” e fatemi sapere.

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