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Piccolo grande uomo Leo
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Ammettiamolo, dopo mesi passati a condividere gif e immagini strafottenti nei confronti del mancato oscar a Leonardo DiCaprio, lunedì mattina, dopo aver scoperto che finalmente l’academy si era accorta di lui, abbiamo tutti un po’ sorriso compiaciuti, quasi orgogliosi, manco si trattasse di un nostro conoscente. Certo la rete non si è sprecata in cattiverie, ma nel contempo è stata anche quella che ha restituito all’attore statunitense un grande riconoscimento mediatico, attraverso tweet e post di congratulazioni. Al di là della consueta psicosi da social, dove in molti si sentono in dovere di citare frasi decontestualizzate dello scrittore o dell’attore scomparso per dimostrare una falsa cultura da bacio perugina, credo che il caso del buon Leo sia da ricondurre ad un analisi più sociologica. E’ innegabile che la sua carriera abbia ormai attraversato tre diverse generazioni e, a differenza di molte meteore dello star system, sia la personificazione dell’affermazione “lo abbiamo visto crescere”. Dallo storico Titanic, dove un giovane ragazzino semi sconosciuto al mondo iniziava il suo infinito percorso cinematografico, quel suo “crescere” non è stato solo un concetto anagrafico, ma legato ad una qualità di recitazione sempre più curata e migliorata. Già allora, grazie al film di Cameron, che diede il via all’apprezzamento mediatico del giovane attore adolescente che aveva tappezzato la propria cameretta con i poster del Jack irlandese presente nella pellicola, le videoteche e le emittenti tv (allora tutte o quasi in chiaro) iniziarono a distribuire e trasmettere i precedenti film della sua acerba carriera, permettendo a molti di stimarne le interpretazioni che andavano al di là della sola “bella presenza”. Se si pensa che in quel periodo avesse all’attivo già ben 9 film con una candidatura all’oscar per “Buon compleanno Mr Grape”, diverse apparizioni in serie tv e 23 episodi di Genitori in blue jeans, non si poteva certo considerarlo una nuova scoperta. Perciò quel ragazzino la gavetta se l’era già fatta e Titanic non è stato altro che il grande salto mediatico. Anche il bellissimo Romeo+Giulietta di Baz Luhrmann, venne rivalutato dal grande pubblico grazie alla risonanza del film di James Cameron, per tornare in molte sale lo stesso anno sfruttando la presenza di DiCaprio nel cast. Quindi Leo, come dicevamo, stava crescendo a vista d’occhio, attraverso ruoli non sempre associati a grandi film, ma che gli permisero di scrollarsi di dosso l’idea del bello prima che bravo, aprendo gli occhi anche ai più scettici. La definitiva consacrazione nel 2002, con due film simbolo della sua carriera, diretti da due mostri sacri di Hollywood: Martin Scorsese e Steven Spielberg. Il primo, con “Gangs of New York”, inizia un sodalizio artisticamente proficuo e sceglie DiCaprio come nuovo alter ego sullo schermo, erede non dichiarato di quel Robert De Niro con cui ha creato pagine essenziali della storia del cinema; con il Re Mida hollywoodiano, invece, un ruolo destinato a restare negli annali in “Prova a prendermi”, dove la sfida tra il giovane truffatore Abbagnale e l’agente dell’FBI che lo insegue, si traduce in una sfida attoriale tra Leonardo e Tom Hanks, senza un reale vincitore. Due film diversi, due interpretazioni agli opposti e DiCaprio che entra nei cuori di tutti gli amanti del cinema. A 5 anni circa da quel Titanic, il pubblico aveva imparato ad amarlo e a rispettarne il talento. Ma l’oscar ancora latitava. Nel frattempo l’attore, tra una modella e l’altra, si butta a capofitto nella salvaguardia ambientale, cercando di sfruttare la sua immagine per sensibilizzare l’opinione pubblica. Anche questo impegno, vissuto sinceramente dal divo, aiuta a migliorarne l’immagine riuscendo a dare molta più risonanza delle conquiste femminili che spesso tendono a creare più interesse sui vari tabloid. Negli ultimi anni, le collaborazioni con grandi registi aumentano e oltre al già citato Scorsese, si aggiungono Ridley Scott, Sam Mendes, Nolan, Eastwood e Tarantino. Tutte interpretazioni magistrali, tutti ruoli papabili per l’oscar. Per citarne uno in particolare, il perfido latifondista Calvin Candie di Django. Maschera di pura cattiveria, cinismo e crudeltà razziale che meritava sicuramente un riconoscimento, anche solo per la distanza dai ruoli decisamente più positivi nei quali siamo abituati a vederlo. Ma anche il Jordan Belfort di "The Wolf of Wall Street", che sembrava potesse essere la sua carta vincente, due anni fa, per salire sul palco del Dolby Theatre di Los Angeles. And the winner is Leonardo DiCaprio. Chissà quante volte ha sognato di sentirlo dire nella notte più ambita, nella serata dal maggior riconoscimento per un attore americano. E domenica è successo, finalmente, grazie anche ad un grande regista (sì, sono tra i sostenitori di Inarritu nonostante il suo chiaro autocompiacimento, resta un regista immenso, ma questa è un’altra storia), capace di proporgli una parte fisica come poche nella sua carriera. Come se, figurativamente, quell’oscar dovesse guadagnarselo con lacrime e sangue. In sala, con lui come su quella nave che gli ha portato il successo mondiale, Kate Winslet, amica che i più vorrebbero amante, con la quale ha la non-relazione di Hollywood più bella di sempre. Tra le sue lacrime, una liberazione che, insieme a lei, i fan o i semplici amanti del cinema hanno provato. Perché DiCaprio è cresciuto con molti di noi e con molti di noi invecchierà. Ti fidi di me? Si Leo e continueremo a farlo.

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