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We Are the Flesh

Regia di Emiliano Rocha Minter vedi scheda film

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La recensione su We Are the Flesh

di scapigliato
10 stelle

L’opera prima del messicano Emiliano Rocha Mínter è un’opera viva e vivificante. La messa in scena è teatrale ed espressionista. Il covo del vagabondo Mariano, sopravvissuto, sembra, a una ipotetica e non specificata catastrofe, ricorda nella sua stilizzazione e nel suo minimalismo l’interno di una grotta in puro stile baviano. Inoltre, questa grotta, diventa anche un grembo materno proprio grazie al carattere simbolico dei suoi interni, labirintici, fetali, sgombri ed intimi. Un non-luogo che può essere appunto ogni luogo, soprattutto un luogo dell’anima, simbolico, oppure un angolo della mente, proiettivo. In questa libertà simbolica con cui il regista definisce lo spazio scenico delle azioni principali trova spazio soprattutto la mineralità dell’ambiente, la grotta appunto, e il conseguente regresso a una vita primitiva fatta di ritualità tribali e pagane.

I due giovani fratelli, Lucio e Fauna, che trovano ospitalità nel covo dell’allucinato protagonista, cadono sotto il suo mefistofelico potere e pur di rimediare acqua, cibo e un tetto sotto il quale dormire obbediscono alle sue estreme richieste. Vengono spinti a copulare tra loro, ad uccidere, bere sangue e cibarsi di carne umana. Così, temi estremi come incesto, necrofilia, cannibalismo e violenza estrema vengono articolati dal regista attraverso la trasformazione animalesca dei personaggi che da uomini diventano bestie senza nessun’altro orizzonte che le proprie fisiologie: nutrirsi, copulare, dormire, defecare e orinare. Personaggi che perdono la parola. L’assenza del logos lascia emergere la forte presenza del corpus, come nuovo codice e mezzo linguistico.

Ricorrendo ai motivi di una sessualità esplicita e pornografica, come fellatio, erezioni ed eiaculazioni, Rocha Mínter libera l’essere umano, o almeno il suo principale referente, il corpo, di ogni morale, e lo lascia comunicare con altri corpi e con l’ambiente come farebbe una animale, un buon selvaggio che si è riappropriato del primato della corporeità e della libido dopo secoli di schiavitù moralizzante. Difatti, questa regressione primitiva e animalesca non viene rappresentata dal regista né come negativa o mortifera, né come positiva o salvifica, tant’è che il personaggio di Mariano, così come muore dopo un’eiaculazione – probabilmente realizzata in prostetica – rinasce, sbarbato e tonificato, sbucando da un angolo umido, liquido, gelatinoso delle pareti della grotta – da qui l’interpretazione della stessa anche come surrogato del ventre materno.

Rocha Mínter si pone così l’obiettivo di girare un film il più libero e meno castrato possibile, dove la bellezza apparentemente insana delle pratiche più aberranti qui descritte non fosse condannata o applaudita, ma solo rappresentata in tutta la sua meraviglia e in tutto il suo stupore, perché il mondo è troppo normalizzato e indottrinato a causa di poteri religiosi e politico-borghesi che hanno regolamentato e infine confessionalizzato il (pre)giudizio dell’atto in contronatura, senza accorgersi che è la moralità propria dell’essere umano a percorrere una strada contraria a quella indicata dagli stimoli e dalle pulsioni del mondo naturale.

Benetto da Carlos Reygadas, Alejandro González Íñárritu e Alfonso Cuarón all’edizione 2016 del Festival di Sitges, ispirato al cinema di Gaspar Noé, Andrzej Zulawski e Léos Carax, e infine molto abile nelle arti plastiche – basti appunto vedere l’ottima resa dello spazio narrativo della grotta – Emiliano Rocha Mínter ha saputo confezionare un’opera vivificante proprio perché concepita visivamente con un’estetica del brutto e dell’osceno non più moralizzata, ma rappresentata per quello che è in un contesto primitivo che annulla i ruoli e le turbe della società borghese. Al contrario, il regista punta il dito ammonitore sui prodotti inquietanti di tale società come il consumismo sfrenato e spersonalizzato, tant’è che i due fratelli pur di mangiare sono disposti a cedere alle perversioni di Mariano, piuttosto che il plagio e la sopraffazione del più forte.

Rocha Mínter, per sua stessa ammissione, ha voluto ricreare un mondo astratto, una realtà parallela giocando la carta fantascientifica della catastrofe apocalittica o dell’Apocalissi stessa, insomma un mondo estremizzato, senza più regole, liberato dal fardello della morale. Tant’è che Rocha Mínter, più interessato all’ambiguo che al didascalico o allo scientifico, trova più incisivo trattare tematiche scomode ed estreme, come quelle da lui trattate in Tenemos la carne, attraverso strumenti visuali, ricorsi allegorici ed immagini evocative piuttosto che con trattati verbosi e poco efficaci. L’autore ha ragione e Tenemos la carne ne è la conferma.

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