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La signora dell'auto con gli occhiali e un fucile

Regia di Anatole Litvak vedi scheda film

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La recensione su La signora dell'auto con gli occhiali e un fucile

di OGM
8 stelle

Si può dire quel che si vuole, ma l’ultimo film di Anatole Litvak è un autentico old timer della settima arte. Una pellicola che, senza volerlo, ha saputo catturare in pieno l’atmosfera degli anni sessanta/settanta, tanto da poterla far respirare ai posteri. E che, dentro il classico barattolo di vetro, ci consegna un concentrato di  suggestioni d’epoca, ancora vivissime nei colori, nei suoni, nel contenuto ideale. Fin dalle prime immagini ci si ritrova immersi nella moda, nella musica, nella fotografia di quel tempo, e, in quella scenografia da museo della modernità, si ritrovano i miti di allora, dalla liberazione della donna alla rivoluzione sessuale, dall’automobile alla televisione. Il viaggio in auto, da Parigi alla Costa Azzurra, intrapreso dalla giovane protagonista – con la minigonna, gli occhialoni scuri e una fascia sui lunghi capelli sciolti – è una rassegna del come eravamo, o meglio del come sognavamo d’essere. In questo giallo on the road, Danielle Lang, una segretaria ventiseienne al volante di una Ford decappottabile,  che il suo principale le ha prestato per il weekend, dà segno di aver perso la memoria; mentre noi, paradossalmente, recuperiamo un ricordo ormai lontano, vedendo sfilare, insieme alla fresca e spregiudicata femminilità della ragazza, quell’eleganza ammiccante e sbarazzina che riempiva i rotocalchi. Quell’aspetto indipendente, stanco ed inquieto che un uomo di passaggio nota in Danielle, fa di lei la perfetta icona delle battaglie d’emancipazione, combattute su più fronti, sul piano sociale come su quello individuale,  nel tenace impegno per la realizzazione professionale, nella continua rincorsa di una felicità di stampo alternativo,   e nella strenua ricerca di un’identità autonoma. In questo thriller il mistero è una presenza che, solo a tratti, emerge, insieme al dolore, dal cupo doppiofondo di una vita allegramente spericolata: una vita, che, in superficie, è una bella avventura, vissuta con spavalda noncuranza, e rigorosamente alla luce del sole. Il problema che Danielle si trova a dover affrontare è un grosso guaio capitato nel bel mezzo della voglia di festa e di mondanità:  si tratta della scoperta di un cadavere nascosto nel portabagagli, un evento che decisamente stona, in piena estate, sul lungomare di una cittadina rivierasca, tra i tavolini dei caffè all’aperto, il passeggio dei bagnanti e la sfilata di una banda musicale. Molto efficace, sul piano cinematografico, è l’idea di organizzare la narrazione su due livelli – un contesto predominante ed una trama nascosta – e di intrecciarli sul filo di un itinerario, in cui ad, ogni tappa, un nuovo elemento affiora dal fondo, un ulteriore tassello va ad aggiungersi all’enigmatico mosaico. Tutto intorno, la gente è in strada a celebrare il 14 luglio, mentre Danielle, nel disperato tentativo di uscire da una situazione che si fa sempre più intricata, è costretta a muoversi nell’ombra, in un mondo sotterraneo fatto di stazioni di servizio, motel e garage. La sua vicenda è un continuo saliscendi tra il giorno e la notte: un movimento simile a quello del montacarichi che, in una delle scene più suggestive del film, trasporta su e giù le macchine parcheggiate nell’autosilo.  L’alternanza tra chiarore e oscurità è sottolineata metaforicamente dalle luci intermittenti che Danielle incontra sul cammino:  una di queste  si vede attraverso la finestra della sua camera d’albergo a Marsiglia, una illumina la  discarica in cui vorrebbe liberarsi dell’ingombrante fardello, un’altra ancora viene proiettata sulle pareti della villa di Avignone.  E poi ci sono i lampi dei fuochi d’artificio, i fari nella notte, la soffusa luminescenza della camera oscura: tutti indizi di una verità onnipresente, che occhieggia beffardamente da dietro le quinte, sottraendosi però pervicacemente agli sguardi. La rivelazione avverrà tutta in un colpo, in maniera forse un po’ troppo convulsa e affrettata; e la parte migliore del film è, in effetti, quella in cui tutto sembra ancora assurdo e sospeso nel dubbio, e solo i flashback attraversano la coscienza con la folgorante energia dei pensieri incompiuti.    


Il film è tratto dall’omonimo romanzo del 1966 dello scrittore francese Sébastien Japrisot  (pseudonimo anagrammato di Jean-Baptiste Rossi), che è anche coautore, con Anatole Litvak, della sceneggiatura.

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