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La variabile umana

Regia di Bruno Oliviero vedi scheda film

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La recensione su La variabile umana

di OGM
8 stelle

Un noir sfumato, tentennante, delicato e acerbo. La giovane soggettista Valentina Cicogna firma una storia dei giorni nostri, in cui, all’ombra di una metropoli misteriosa e distante, la cronaca si intreccia con l’intimità di un rapporto tra un padre ed una figlia. Lui è un poliziotto consumato da un lavoro che gli sbatte quotidianamente in faccia solo il lato più squallido della realtà, ed è, al tempo stesso, un uomo profondamente segnato dal recente dolore per la perdita della moglie. Lei, la sedicenne Linda, è un’adolescente incompresa, insicura, eppure desiderosa di conoscere la vita, anche nei suoi risvolti meno nobili, e dunque più trasgressivi, più intriganti, più adulti. L’ispettore Adriano Monaco trascina la sua figura stanca attraverso un’indagine che si presenta tristemente facile, banale ed avvolta dalla noia dell’ineluttabilità. Mirko Ullrich, un noto costruttore, viene trovato cadavere nella sua abitazione. Raggiunto da un colpo di pistola, è morto dissanguato.  La moglie, interrogata, fornisce un alibi che viene subito smentito dalla registrazione di una videocamera di sorveglianza. Il caso si profila come il classico delitto passionale maturato nella Milano bene, nelle stanze private in cui il vizio e il malaffare giungono alla resa dei conti, lontano dagli occhi della gente e dalle luci delle feste. Di queste vicende abbiamo sentito parlare troppe volte, ed anche il film sembra restio a trattare l’argomento, per timore di ripetersi, di cadere nelle solite frasi fatte, di girare in tondo al nulla in cui il risaputo finisce, prima o poi, per restare risucchiato. Sarà per questo che la sceneggiatura stenta ad avanzare nei fatti, mentre ama tornare indietro, almeno col pensiero, al fine di ritrovare il filo di un discorso destinato comunque a rimanere inconcluso. Adriano si affanna ad inseguire la verità, ma è il solo a vivere quella ricerca come un tormento interiore, una prova personale, forse una sfida che riassume il senso di un’intera esistenza. Quell’incarico è fonte di immensa angoscia, e Adriano, inizialmente, tenta di mollarlo. Poi accetta, nonostante tutto, di continuare ad occuparsene, formalmente da comprimario, ma, in effetti, da vero protagonista, da eroe che non ha paura di andare oltre, affondando il dito nelle ferite che fanno più male. La lentezza di questo film riflette l’inerzia che incombe come una costante tentazione su tutti i personaggi – lui compreso - inducendoli ad imboccare la strada più liscia, più silenziosa, più scontata, che traccia un percorso familiare, lastricato di abitudini e  considerazioni confortanti. Così ci si può illudere che nulla sia cambiato, e che non vi siano novità inattese con cui fare i conti. Milano, dice Levi, è sempre la stessa. Gli orecchini che Adriano regala alla figlia non sono mai appartenuti alla moglie, sono sempre stati suoi. Ed è certo che la signora Ullrich confesserà che l’assassina è lei, che poi è quanto sembrava chiaro dall’inizio. è ben arduo abbattere questo muro incrostato di ovvietà che odorano di pace, forse di anche di grazia e di onnipotenza, e ci  fanno sentire al sicuro, convincendoci di avere il pieno controllo sulla situazione.   La variabile umana traduce questa difficoltà in un attrito narrativo, una ritrosia drammaturgica che riduce il racconto ad un balbettio sommesso e confuso, sofferto perché assillato dal terrore di infrangere il tabù del male, scoprendone l’imprevedibilità e la capacità di coglierci impreparati e  colpirci da vicino, laddove meno ce lo aspettiamo.  La logica è l’arma che apre un pericoloso varco nella giungla dell’apparenza, soprattutto quella costruita ad hoc, come una corazza contro gli attacchi dell’ignoto. Ed è lo strumento di battaglia che qui vince, ma forse solo a metà, ostacolato da quell’immaturità alla conoscenza che è il vero fondo melmoso della condizione umana. 

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