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Un giorno devi andare

Regia di Giorgio Diritti vedi scheda film

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alan smithee

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La recensione su Un giorno devi andare

di alan smithee
8 stelle

Un giorno devi andare….senti che devi partire, lasciarti dietro i tuoi natali, il dolore che ti accompagna, la sofferenza per una perdita di qualcosa che non hai in realtà mai avuto ma solo desiderato, un vuoto improvviso che ti sta segnando e condizionando l’esistenza, che ti sta facendo rimettere in discussione tutti i capisaldi e le certezze che hanno governato la tua esistenza in un contesto borghese di una città del Nord Italia.
Augusta infatti è partita dalla sua cittadina dell’Italia settentrionale avvolta da un gelo e da una compostezza rassicurante ma pure troppo asettica ed insopportabile ora che ha deciso di rimettersi completamente in discussione; ha deciso di seguire, un po' timida ed insicura, il percorso pianificato e programmato nei particolari di una dinamica suora laica amica di sua madre, e per questo la troviamo in Brasile, fragile ma piena di volontà. Assieme alla religiosa, la ragazza risale i fiumi dell’Amazzonia per portare conforto materiale e magari pure spirituale alle popolazioni locali, insegnando loro i rudimenti di una civiltà che ancora non appartiene a quei territori e che non è proprio detto costituisca la soluzione ideale di ogni problema.
Tuttavia più passa il tempo più la bella trentenne si accorge che, dietro la guida ragionata, saggia ma castrante della suora la sua funzione, il suo ruolo, la sua figura si riducono ad una una copia sbiadita di quella dinamica e concreta della religiosa, senza un fine preciso e compiuto che possa dare un senso alle sue rinunce.
Per questo, raggiunta la favelas di una grande città ai limiti della foresta amazonica, la giovane decide di abbandonare la sua compagna di viaggio e di restare a vivere nelle palafitte pericolanti di quel ghetto costruito su un lato, quello povero, del grande fiume, nella sponda della miseria, quella opposta ed in netto contrasto con i grattacieli illuminati della metropoli della riva opposta. Un fiume impetuoso che man mano ed inesorabilmente si porta via pezzi di una civiltà che tuttavia non vuole abbandonare le proprie origini, venendo meno agli appelli (e alle offerte invitanti) dello Stato, che impone agli abitanti di spostarsi in una nuova zona/alveare in via di costruzione.
Dopo un primo periodo di soddisfazione e di una parvenza di serenità, ecco che tornano in Augusta i tumulti dell’anima, sensazioni più forti di lei che le faranno capire che l’unica possibilità per placare le proprie inquitudini interiori è quella di estraniarsi ancora di più e definitivamente da una civiltà che prima o poi finisce per inghiottirla con le sue problematiche e le sue difficoltà, da una massa a cui non riesce più a rendersi disponibile.
Il terzo film di Giorgio Diritti è il più intimo ed intenso, il più urgente e sentito fino ad ora concepito, e dunque proprio per questa sua interiore complessità probabilmente il meno riuscito dei tre: ma nello stesso tempo possiede l’orgogliosa qualità del coraggio e dell’impresa vissuta sulle proprie spalle, la forza di descrivere uno stato psico-fisico interiore che nella sua complessità è davvero difficile riuscire a far arrivare al pubblico senza scadere nel déjà vu o senza farsi fagocitare dalla problematica più concreta di una società emarginata e allo sbando. Una civiltà sempre in bilico tra la tentazione di lasciarsi comprare dalle offerte governative volte a far abbandonare la bidonville piuttosto che a scegliere di restare nella precarietà piena di incognite ma in fondo rassicurante della propria pericolante condizione.
Per Jasmine Trinca l’opportunità offerta da Diritti è quella di impadronirsi con i propri lineamenti fini ma non esili e comunque esteticamente piacevoli, di un’intera opera che finisce per identificarsi nel proprio ruolo, nel proprio personaggio complesso e turbato, e di conseguenza nella propria espressività dolente e sofferta necessaria a rendere credibile la figura di donna alla ricerca di una verità e di uno scopo che le è stato tolto da tempo. Torna anche stavolta, ma affievolito dall'ambientazione parzialmente esotica di oltre 3/4 di film, lo stile placido dei personaggi semplici e candidi dell’universo nordico e montano tipico della cinematografia di Diritti: e proprio in questo caso possiamo renderci conto di come risultano più convincenti, almeno cinematograficamente, proprio perché più vicini all'autore, i personaggi geograficamente a noi più vicini rispetto a quelli dell’emisfero opposto: i primi più convincenti anche se meno reali dei secondi, nei confronti dei quali emerge nel regista e sceneggiatore e nei suoi collaboratori lo sforzo per mantenersi saldamente ancorati alla realtà nuda e cruda, attenendosi alla drammaticità di una situazione che è la semplice fotografia di una situazione di vita dilagante e ai limiti della disperazione, ma vissuta dai locali con una allegria e coraggio di fondo encomiabili per non dire sfacciati.
Anche in quest’opera comunque non possiamo non riscontrare come valore aggiunto la bella commistione, già vista in precedenza, tra recitazione professionale di attori professionisti e quella improvvisata e naturale dei personaggi veri e reali presi e ripresi nel corso della loro vita vera, siano essi donne anziane dedite ad organizzazioni di sostegno, carità e mutuo soccorso, siano invece indigeni della giungla amazzonica.
Il cinema di Diritti è un mosaico di realtà e finzione dove spesso la prima, quella affidata agli attori presi sul cammino, sembra quasi uscita da una favola tanto sembra irreale e lascia alla seconda, cioe' alla parte riservata ai professionisti, lo spazio per tornare alla cruda  realtà. In questa strana ed inconsueta antitesi sta il bello e l'originale di questo bravo regista.

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