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In Another Country

Regia di Hong Sang-soo vedi scheda film

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La recensione su In Another Country

di spopola
8 stelle

Costruita su tre brevi racconti complementari che si specchiano e quasi si rincorrono dentro a una stessa cornice, anche se in differenti fasi temporali, è un interessante susseguirsi di belle immagini che analizzano tre diversi posizionamenti di vita e di coscienza che sembrano voler governare e ribaltare ogni possibile “malinteso dell’esistenza”.

In Another Country, è una surreale e ben strutturata commedia a mosaico che si avventura sullo scivoloso terreno dei condizionamenti psicologici delle relazioni e sulla casualità davvero imprevedibile degli incontri.

Costruita su tre brevi racconti “complementari” che si specchiano e quasi si rincorrono dentro a una stessa “cornice”, anche se in differenti fasi temporali, è il tredicesimo lungometraggio del  prolifico regista sudcoreano  Hong Sang-soo (e la sua terz’ultima fatica in ordine strettamente cronologico, visto che ha già al suo attivo dopo di questa, due altri titoli: “Nobody’s Daughter Haewon”e “Our Sunhi” entrambi del 2013) che segna anche il suo felice incontro con Isabelle Huppert, sulle cui capaci spalle (e puntando molto sulla sua straordinaria duttilità di interprete) ha intessuto le trame di questo interessante, fragile e paradossale divertimento “metacinematografico” che parla del potere della fantasia, del senso di sradicamento e della rassicurante sicurezza offerta dagli oggetti, che qui sono proprio gli elementi che sembrano governare e ribaltare ogni possibile “malinteso dell’esistenza”. Un percorso che analizza insomma tre diversi posizionamenti di vita e di coscienza, ma dove in fondo a “contare” è proprio e soprattutto Isabelle Huppert e la sua splendida prova di attrice alle prese con tre differenti caratteri e situazioni, ma che comunque riconducono sempre e solo a lei, poichè sono questi tre “piccoli” racconti (o meglio ancora, queste “tre possibili storie”, come le ha giustamente definite Andrea Frambosi) dentro una stessa matrice esistenziale e le loro diversificate protagoniste che hanno un solo volto, a far riverberare il film di una luce molto particolare che rende davvero inusuale la pellicola anche nella carriera del regista proprio per le “sottili” variazioni che ci offre su un tema che per lui non è certo una novità, visto che è proprio questa “specifica cifra stilistica” che potrei definire del  “mutamento situazionista” dei fatti, delle condizioni e dei caratteri, uno dei capisaldi prioritari dell’intera sua poetica di autore. La novità principale sta però nel fatto che qui utilizza un’inedita,  gradevolissima levità di tocco che pone il risultato abbastanza lontano per esempio non solo dalla visione filosofica e un tantino patriarcale de “La femme est  l’avenir de l’homme o dai cerebralismi di “Turning Gate”, ma anche delle elaborazioni un poco cervellotiche di “The Day He Arrives (e molti suoi “cultori” potrebbero restare forse un poco disorientati proprio da questo probabilmente inaspettato “cambiamento di prospettiva” – in parte preannunciato dalla sua precedente fatica - che ci regala questa volta degli intrecci abilmente ricamati su una tela tenue come quella di un ragno o addirittura impalpabile al pari di una nebbia mattutina che si dissolve ai primi raggi del sole, ma che rappresentano nel contesto generale, una maniera sincera e profonda che prova a intavolare con compiaciuta leggerezza un proficuo dialogo con lo spettatore attraverso questa moltiplicazione di sguardi e il loro caleidoscopico rifrangersi in tre vicende – analoghe e disuguali nello stesso tempo – che non solo si “richiamano” l’una con l’altra, ma entrano addirittura in risonanza fra di loro). Tre differenti direttrici (le potremmo davvero definire così) tenute magicamente unite – e mi ripeto – dalla strepitosa performance  di un’attrice in costante “stato di grazia”, capace – insieme al regista e agli altri affiatati interpreti -  di trasformare “in centripeta la  tendenza centrifuga dei racconti” (ancora Andrea Frambosi).

Perché qui, con un occhio particolare che guarda a certe tonalità autunnali dei personaggi che sembrano parenti prossimi di quelli sempre incerti fra fallimento, esaltazione e solitudine tratteggiati spesso da Alain Resnais,  (spogliati però da ogni possibile ermetismo e riportati invece alla coinvolgente immediatezza e semplicità del cinema di Truffaut), il regista  con uno stile limpido e attento a mostrare ogni dettaglio anche “ripetitivo” di ciò che si ripresenta immutabile nelle tre storie, racconta principalmente le “incerte” sfumature dell’anima (spesso cangianti) e lo fa non solo con il desiderio e  lo stupore dell’imprevedibilità che sembra quasi voler esasperare al fine di far sua la “necessaria” complicità dello spettatore, ma anche e soprattutto con una sorprendente, formale e un po’ bizzarra curiosità osservativa, qualità queste che contribuiscono a rendere davvero preziosa la sua opera: una modalità di fare cinema che può risultare un tantino teorica nel riprodurre i cambi di umore e personalità dei personaggi che vivono dentro i tre racconti, poiché  c’è (ed è invitabile) il rischio che a volte la finzione possa prevalere un poco sull’immediatezza, ma che riesce comunque  proprio in virtù della sua “rassicurante semplicità”,  a rendere palesemente palpabile l’invisibile (e spesso labile) confine che esiste fra immaginazione e realismo.

Ma veniamo alla “storia” che è quella di una adolescente, Woniu che, contrariata dall’interruzione improvvisa delle vacanze estive e in fuga con sua madre dai debiti che hanno contratto in precedenza, decide di scrivere sul suo diario nella pace ritrovata ma noiosa di Mohang dove si sono rifugiate, dei soggetti cinematografici che poi noi vediamo prendere vita sullo schermo.

Nel primo, immagina che una regista francese di successo, Anne (lo stesso nome che si ripeterà immutato nei tre racconti, come immutata sarà anche la cornice) venga in visita in Corea in compagnia di un collega indigeno e si fermi nella stazione balneare di Mohang.

La seconda Anne è invece un’imprenditrice francese che, sempre a Mohang, intrattiene una relazione con un misterioso amante..

La terza Anne è al contrario una donna che analizza il suo passato dopo essere stata lasciata dal marito per una ragazza del luogo (sempre Mohang).

Tre differenti Anne dunque interpretate come si è già detto, dalla stessa attrice,  ma che presentano – dentro un analogo ambiente e con differenti “mutamenti” che non sono soltanto temporali, ma che si evidenziano anche con toni, umori e colori altrettanto variabili - cambiamenti essenziali che le rendono diversamente “sfaccettate” in un “quadro” d’insieme dove si incrociano sempre gli stessi personaggi e le stesse cose (un ombrello che si perde, il bagnino che corteggia Anne), persino le stesse frasi, come quella della ricerca del faro – topos  ricorrente ribadito da una domanda ribadita spesso: “dov’è il faro?” posta insistentemente dalle tre Anne al bagnino e che qui acquisisce un senso fortemente metaforico (il faro come ben si sa è la luce che nel buio della notte – anche di quelle più tempestose – guida le imbarcazioni dentro un porto sicuro, ed anche nelle nostre storie sembra voler assurgere a simbolo della “caparbia” ricerca di un qualcosa che si è perso - e non importa cosa: potrebbe trattarsi semplicemente di un ombrello, di una persona, o di una bottiglia di Soju perché non è l’entità della perdita, il suo valore, o persino la possibile momentanea transizione dell’assenza che qui interessa, ma bensì lo smarrimento, il senso della “privazione” che ne consegue in un film dal ritmo misterioso e teso come i suoi protagonisti (e le loro differenti reazioni alle proprie personali paure) che sembrano interrogarsi in modo fortemente introspettivo, su come poter poi trovare una risposta alle proprie personali frustrazioni.

Un cinema geometrico, intimo e minimalista, dunque con cui l’autore segue  il suo suggestivo percorso fatto soprattutto di parole e gesti, per regalarci un’opera che a mio avviso ha uno spirito profondamente europeo (soprattutto francese, perché ai due grandi nomi già citati prima, dovremmo forse aggiungere anche quello di Rohmer nella similitudine che mi sembra di individuare in quel  voler ricreare le regole di una  educazione sentimentale riportata alla dimensione del quotidiano), che si esplicita attraverso una duplicazione che ha una matrice letteraria molto evidente e che contribuisce a renderlo un piccolo, ambizioso e commovente dizionario delle passioni e dei sentimenti.

Quello che sorprende di più è il fatto che il regista riesce ad arrivare a questa specie di bilanciamento che trova la sua massima espressione nel finale, dopo essersi “divertito” a scompaginare in precedenza ogni percorso logico, a creare a suo modo “confusione”, rimanendo però sempre meticolosamente attento nel rispettare le variazioni antropologiche dei caratteri e gli adattamenti ai “principi” e ai “doveri” diversificati nelle varie storie, in un gioco esotico e formale basato sulla ripetizione circolare dei litigi e delle incomprensioni, tra stati d’animo integrativi che si sviluppano in base alle differenti psicologie  “interfacciate” e altrettante interessanti riflessioni sull’abbandono che rappresentano probabilmente il principale espediente narrativo di un iter ben articolato, sorretto con grande perizia  da una messa in scena che qui diventa quasi un’idea di teatro improvvisato e cangiante come le sue immagini,  che prende forma dai diversi “umori” dei suoi interpreti, per indagare su una condizione umana che sembra essere incapace di fronteggiare (e metabolizzare adeguatamente) i cambiamenti.

Un piccolo “breviario sentimentale”, insomma, preciso e inappuntabile, che invita a cambiare punto di vista per capire meglio la vita (Frambosi) e rendere così tutto più semplice e armonioso.

 

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