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La Yuma

Regia di Florence Jaugey vedi scheda film

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La recensione su La Yuma

di OGM
8 stelle

Virginia è una ragazza che combatte. Nella vita e sul ring. Nel sobborgo di Managua in cui abita, la chiamano La Yuma, con la y pronunciata come una g dolce. Il suono del suo nome è duro, come si addice ad una pugile dal corpo mascolino, eppure tutti sembrano vedere solo la sua condizione inferiore, di donna giovane e senza mezzi, che è costretta a lavorare per mantenere la famiglia di origine, ed è sufficientemente attraente per essere desiderata dai membri delle gang della zona. E che, soprattutto, è dileggiata per quella sua passione sportiva così anomala. Virginia è forte e determinata, però, in quel luogo, riesce a legare soltanto con i reietti, con il ragazzo affetto da sindrome di Down e con il travestito, con coloro, insomma, che sono “strani” e incompresi come lei. La sua figura si colloca in una singolare zona di frontiera, che è ancorata al degrado delle baraccopoli, però è lambita dal mondo della civiltà e del benessere: quel territorio sul quale si affacciano i suoi sogni di successo e al quale appartiene Ernesto, lo studente di giornalismo che Virginia incontra per caso, e che diventa subito il suo amore. Il suo entusiasmo si rivolge verso un orizzonte vasto e sgombro, che si estende al di là dei confini del ghetto, in cui si è prigionieri della paura, della violenza, della fame, dei pregiudizi. Unico, simbolico avamposto di quell’universo dorato dentro lo squallore del suo quartiere è il negozio nel quale è impiegata come commessa: una rivendita di abiti usati provenienti dagli Stati Uniti, la cui titolare si chiama Scarlett, come l’eroina di Via col Vento, ed è una signora dall’aspetto distinto e civettuolo, miracolosamente pronta a soddisfare ogni sua richiesta, dai permessi di uscire agli anticipi sullo stipendio, e che le presta persino i vestiti per le serate speciali, quasi fosse la fata di Cenerentola.  Quel personaggio così magicamente femminile sembra l’incarnazione di un sogno, in cui ci si può immaginare belle, ricche, eppure gentili e generose, senza l’aggressività e la diffidenza che, fin da bambini, si imparano vivendo sulla strada. Anche il rapporto con Ernesto la strappa alla crudeltà della miseria e del crimine per rapirla dentro la dolcezza, laddove il prossimo obiettivo non è una borsa da rubare o un colpo grosso da organizzare, bensì un concerto a cui assistere, un articolo da scrivere, un viaggio per trascorrere il weekend in riva al mare. Virginia intende uscire dalla dimensione della necessità materiale e della pulsione fisica   per entrare in quella del desiderio coltivato con la mente e cullato nel cuore. Il suo piglio energico è l’involucro protettivo di una delicatezza interiore che vorrebbe sollevarsi da terra, per sorvolare davvero, in senso letterale, su quella avvilente situazione in cui è immersa, accanto ad un fratello delinquente ed un patrigno infingardo e autoritario. Virginia può invece solo far finta di non vedere, e tollerare il male intorno a sé come si fa, per abitudine, con la sporcizia dell’ambiente, la fatiscenza delle case, l’aspetto rozzo e ridicolo della gente abbrutita. Solo quando il dolore e lo scandalo colpiscono troppo da vicino, la ribellione diventa naturale e inevitabile: la svolta del finale comporta un deciso cambio di rotta, un definitivo rifiuto di tutto ciò che offende l’innocenza, ed una consegna della propria vita a quella fantasia un po’ temeraria che non offre nessuna sicurezza, però è parente stretta della gioia e della libertà. La Yuma è un film che parla il linguaggio dei cortili e dei marciapiedi, perché è con quell’idioma primitivo, conciso ed esplicito che, nel contesto del barrio, si esprimono sia la desolante volgarità delle anime perse, sia la  coraggiosa tenacia delle coscienze integre e battagliere.

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