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Imago mortis

Regia di Stefano Bessoni vedi scheda film

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La recensione su Imago mortis

di amandagriss
2 stelle

“Imago mortis per oculos tuos” è ciò che mira ad ottenere il thanatoscopio, singolare, crudele marchingegno di ferro a forma di casco capace di catturare l'ultima immagine rimasta impressa sulla retina di chi, dopo averlo indossato, è passato a miglior vita. Infatti, molte sono state nel tempo le vite sacrificate per questa nobile causa, affinché si affinasse tale procedura, capace di sconfiggere la temuta morte riuscendone a fissare il momento esatto della sua 'entrata in scena'. Tematica (quella dell'ultima visione del morituro) che conta un illustre precedente, l'argentiano 4 mosche di velluto grigio, ma l'opera in questione non possiede nulla dell'inquietudine, dell'angoscia trasudante, del terrore puro -ancora oggi intatti- di uno dei lavori visivamente più potenti e paradossalmente tra i meno visibili del 'nostro orgoglio nazionale'. Per essere un prodotto italiano si avvale di una rispettabilissima confezione (infatti la coproduzione spagnola vanta di un’estetica horror impeccabile), purtroppo, vuota all’interno. Sopraffina, perciò, la fotografia, che predilige i chiaroscuri ed evoca, quando si fa calda e soffusa, tempi lontani, rimandando a dipinti storici e/o vecchie foto d'epoca (lo stile ricorda molto quello del libretto interno all'album Holy Wood del controverso rocker Marilyn Manson, un capolavoro di macabra bellezza), mentre quando è metallica o al neon rende palpabile la freddezza degli ambienti, riuscendo ad allestire sapientemente atmosfere claustrofobiche e sinistre. Ciò di cui è sprovvisto il film è il film stesso, la capacità di amalgamare forma e contenuto, sviluppare il soggetto, creare una trama e, in quanto horror (così si definisce), suscitare almeno qualche brivido. E invece a dominare incontrastati sono una piattezza da sbadiglio, incongruenze a iosa, spunti abortiti, 'bus' annunciati (e quindi vanificati) da un'irritante sottolineatura musicale, ambiguità e mistero che tali non sono, citazioni (Argento su tutti) non all'altezza degli originali, enfasi recitativa (espressionista?) a dir poco grottesca del protagonista Alberto Amarilla, un Lino Capolicchio in acido (il regista è, infatti, un Pupi-llo di Avati) che non perde occasione di mostrarsi a torso nudo. E su tutti, un finale aperto che si crede inquietante quando è solo l'inutile chiosa di una pellicola vergognosamente irrisolta.

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