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Prega il morto e ammazza il vivo

Regia di Giuseppe Vari vedi scheda film

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La recensione su Prega il morto e ammazza il vivo

di scapigliato
8 stelle

Il bandito Dan Hogan aspetta il suo oro, ma sulla sua strada lastricata di certezze incontra un tipo misterioso, tale Joe Webb. Da qui in avanti il capolavoro western di Giuseppe Vari è indescrivibile per bellezza visiva e narrativa. Fin dalla scelta di ambientare la vicenda in due luoghi precisi e antitetici capiamo di non trovarci davanti al solito prodotto dozzinale, che seppur fatto bene o benino come nei casi di Demofilo Fidani e Leon Klimowsky, era pur sempre un prodotto dozzinale, artigianale sì, ma che poco aggiungeva allo sviluppo del genere. Invece in “Prega il Morto...” abbiamo una serie di indizi che ci comprovano l’intenzione autoriale del progetto. Spicca innanzitutto la centralità di Klaus Kinski. Il folle e delirante attore austrico, che era tale solo per giornalisti e colleghi, ma che in realtà era un uomo mite che aveva capito come “rifiutare” il mito igienico borghese, ha qui un ruolo davvero primario. Di solito lo vedavamo sfilare tra i cattivi, come in “Per Un Pugno di Dollari” suo esordio spaghetti-western, se isoliamo il secondo “Winnetou” tedesco, o come in “Quien Sabe?”, “Il Mio Nome è Shangai Joe”. Oppure era un’apparizione fugace che bastava a tenere il film in cartellone come “Giù la Testa...Hombre!”. Qui invece, come in “...E Dio Disse a Caino”, è lui il centro narrativo, l’immagine principale di un festival iconografico affascinante scelto dal regista, come la ricreazione dell’inospitale frontiera western. É Klaus Kinski l’ultimo termine di paragone possibile. É lui che disarticola il canone intervenendo improvvisamente, con impeti sempre diversi, tra due o più personaggi, oppure in più situazioni diverse. É lui che “fuorileggia” diegeticamente, ma anche extra-diegeticamente, per tutto l’arco del film. É lui che prende in mano la cifra stilistica e artistica del suo personaggio e del film intero. Un regista in campo potremmo dire, che monta, taglia e rimonta le emozioni del racconto cinematografico in questione. In definitiva è lo stesso Klaus Kinski ad essere autore di sé stesso in funzione del suo personaggio, che non è tanto un personaggio come gli altri che va in giro con una corta frusta a seminare terrore, ma è un personaggio che è poi lui stesso, o una proiezione del sé caotico e selvaggio che la sua libertà artistica gli permette di liberare. Dà così sfogo alla primitività della recitazione: non guidata, non trattenuta, teatrale ma cinematografica. Insomma, il grande Klaus Kinski dona la cifra maggiore ad un film che già di per sé avrebbe brillato di luce propria.
In più, vanno notate le seguenti caratteristiche. Per tutto il primo tempo la vicenda è ambientata in un luogo chiuso, in cui fatichiamo a distinguere il giorno e la notte. Addirittura piove. Solo quattro mura, eppure la bravura degli sceneggiatori è stata quella di creare dialoghi e situazioni impareggiabili, mentre quella del regista è di aver inquadrato le scene con l’amore tutto italiano per il western mitico che da Leone in avanti ha conquistato i nostri cuori. La seconda parte del film, invece, è tutta ambientata in un luogo arioso, vasto, all’aperto: il deserto. Sabbia, roccie, pietraglia, rivoli d’acqua a pagarli oro, l’occhio caldo del cielo a picco su di loro, cavalli allo stremo, banditi che si ammazzano tra di loro. Insomma un’invenzione dietro l’altra che insieme all’ispirata regia di Vari creano un film tra i migliori prodotti dopo il 1970. Avrei giusto fatto diversamente il finale. L’avrei ambientato nel deserto, e non tra il verde dei pascoli di alta montagna, e soprattutto lo avrei sviluppato sulle corde dell’immancabile duello, invece che in una veloce sparatoria, tra l’altro ben diretta, interpretata e montata.

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