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Il delitto di Teresa Desqueyroux

Regia di Georges Franju vedi scheda film

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La recensione su Il delitto di Teresa Desqueyroux

di alan smithee
8 stelle

Thérèse Desqueyroux è innanzi tutto un romanzo del 1927 di Francois Mauriac. E' poi l'ultimo film del regista francese Claude Miller, morto poco dopo le riprese e per questo omaggiato a Cannes 2012 dove la pellicola fu scelta come film di chiusura.
Ma Thérèse Desqueyroux è pure, e soprattutto a mio avviso, la prima versione cinematografica, datata 1962, dell'accennato romanzo. Questo primo tentativo, trasposto dal francese Georges Franju, cineasta valido di pochi buoni film, ma piuttosto misconosciuto in Italia, se non per quel capolavoro cult che è per molti l'agghiacciante "Occhi senza volto", viene dal regista spostato in avanti di trentacinque anni (dal '27 al '62) alla contemporaneità del momento delle riprese (mentre Miller riprende l'esatta ambientazione d'epoca del romanzo).
Franju sceglie pure di mortificare le riprese della verde campagna di Landes, nelle vicinanze di Bordeaux, con un bianco e nero spettrale che rende tutto (dagli alberi di pino maestosi alle tecniche di cacciagione) più cupo e funereo (mentre nell'opera di Miller il verde smeraldo delle conifere fa da contrasto con i colori altrettanto sgargianti di un'ambientazione accurata ma pesante e decisamente molto finta e posticcia).
Franju inoltre non si accontenta di una linearità temporale della vicenda (come fa invece Miller, scelta più semplice che tuttavia penalizza nuovamente il film più recente banalizzandolo ed appiattendolo ad una mera cronaca spesso incolore) ma ricorre ad un ben congeniato flash-back che inizia a 3/4 della vicenda, quando la protagonista - scagionata per un soffio dalla deposizione salvifica quanto menzognera del marito, scampato a morte dopo una grave intossicazione per un avvelenamento non ben chiarito nella sua reale dinamica - fa ritorno a casa per trascorrere il capitolo autunnale e solitario della propria esistenza, segregata in una stanza a ripensare alla propria infelice esistenza. A questo punto Franju riparte dall'inizio per raccontarci uno dei tanti matrimoni combinati per unire due vasti appezzamenti confinanti tramite un matrimonio calcolato a tavolino: difatti nè Thérèse né tantomeno suo marito Bernard Desqueyroux si amano, ed in fondo non si crucciano più di tanto della cosa appena pensano in termini economici ai frutti promettenti della loro unione tattica.
Almeno finché Thérèse non si accorge - vivendo indirettamente le pene d'amore della sua migliore amica (nonché sorella del marito), invaghitasi di un bel giovane che non la ricambia seriamente come vorrebbe, ma anzi fa la corte alla nostra protagonista - di cosa voglia dire esattamente innamorarsi di un'altra persona.
La versione di Miller invece punta di più sul carattere sosfisticato di Thérèse, una Audrey Tatou dal musino ormai familiarmente insofferente, qui a causa piu' prettamente caratteriale e per l'insofferenza ispirata dalla stagnante atmosfera ottusa del piccolo borgo. Franju si sofferma maggiormente sulle questioni di cuore, sulla pena d'amore che Thérèse intravede nell'animo sconvolto della propria amica, chiedendosi perché lei in vita sua non sia mai riuscita a provare un tale brivido di desiderio, tantomeno nei confronti di un marito così grossolano, assente e superficiale.
E se dunque il film di Franju scorre via teso come un noir e concitato nelle pene d'amore che racchiude nell'animo devastato di una Emmanuelle Riva davvero brava (e per questo premiata con la Coppa Volpi a Venezia '62) nel rendere con passione la figura tormentata di una irrisolutezza che è un prezzo troppo alto da pagare senza commettere un gesto di follia, la versione del pur semsibile e bravo regista Miller appare più come una posticcia rappresentazione in costume di un'epoca che non riesce per nulla a legarsi con la modernità della messa in scena e con la nitidezza delle immagini e dei colori. Dunque un perfetto noir dei sentimenti contro una calligrafica rappresentazione di un presepe vivente che guarda più alla correttezza della trasposizione temporale che al dramma universale che si cela dietro una vita di imposizioni e di circostanze a salvaguardia di interessi meramente materiali. Una lotta decisamente impari dove ancora una volta, almeno cinematograficamente, il passato ha la meglio sul presente.

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