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L'estate di mio fratello

Regia di Pietro Reggiani vedi scheda film

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La recensione su L'estate di mio fratello

di spopola
8 stelle

Un ottimo esempio di cinema povero di risorse economiche ma ricchissimo di idee e di intelligenza creativa. La carenza dei fondi a disposizione è largamente compensata dalla qualità dell’ispirazione e da una sensibilità fuori dal comune che rende il film poetico e introspettivo al tempo stesso.

L’esordio nel lungometraggio di Pietro Reggiani con “L’estate di mio fratello” è un ottimo esempio di cinema povero di risorse economiche, ma ricchissimo di idee e di intelligenza creativa. Riesce infatti a compensare la carenza dei soldi a disposizione, con la qualità dell’ispirazione e una sensibilità fuori dal comune (davvero insolita dalle nostre parti) che riesce a rendere il film a suo modo poetico e introspettivo al tempo stesso, totalmente esente dai vizi di una eccessiva e insistita “magniloquenza figurativa” di molte presunzioni presupponenti che affliggono una cospicua fetta di opere prime in circolazione. Ed è proprio questa sua “ascesi” quasi francescana a renderlo caldo e appassionato come pochi altri. Rappresenta però al tempo stesso lo specchio delle contraddizioni di quella che potremmo definire la “tragicomica situazione di ciò che resta dell’agonizzante cinema italiano” (ovviamente di quello che davvero possiamo chiamare “cinema”, visto che ormai imperversano solo gli acclamati - e vincenti in termini di incassi – “meloromanzi” patinati e inconsistenti, dimenticabili epigoni di scialbe produzioni para televisive, o i beceri reperti barzellettieri delle strenne natalizie che non riescono ad essere nemmeno trash, che con la settima arte hanno davvero poco da spartire) se nonostante i premi e gli apprezzamenti ricevuti nei vari festival e rassegne internazionali alle quali ha partecipato con un successo, non ha avuto l’onore e il privilegio del “riconoscimento” al valore dalla disattenta distribuzione nostrana che ha preferito ignorarlo priorizzando ben più gracili facezie, impedendogli così di raggiungere con regolare tempestività i nostri schermi e con questi il pubblico per il quale era stato pensato. “L’estate di mio fratello” ha dovuto infatti penare per ben due anni, restando nell’ombra e in sfiduciata e inutile attesa di qualche mecenate lungimirante del quale sembra che si sia ormai da tempo perso le tracce, che volesse assumere le vesti del “nume protettore” e che per questo gli potesse garantire la visibilità negata. Quando ormai si poteva persino cominciare a disperare, è riuscito però a superare l’impasse quasi per miracolo, per approdare infine in qualche sala marginale, ma solo grazie alla caparbietà e al supporto operativo di un ristretto ma qualificatissimo numero di persone di “buona volontà” comunque fuori dai circuiti tradizionali della programmazione (l’Associazione Self Cinema) e il disinteressato coinvolgimento dei gestori di piccole realtà locali, ancora innamorati del buon cinema e disposti per questo a difenderlo con le unghie e con i denti. Il film ha illustri precursori, magari persino più “inquieti”e allucinati, come il non dimenticato “Chi è l’altro?” di Robert Mulligan (mi riferisco evidentemente ai connotati espliciti del racconto) ma nonostante la diversità del tono, riesce ad essere non solo personale e insolito negli sviluppi, ma anche pregnante e significativo nel disegnare il penetrante ritratto di un “terrore” infantile così bene visualizzato (e contestualizzato) nelle sue implicazione immaginarie che si concretizzano nella paura della perdita dei propri diritti prioritari che un intruso (l’arrivo di un inaspettato e temuto fratellino) potrebbe mettere in discussione e nell’ipotizzare possibili tattiche difensive per scongiurare la minaccia. E’ in effetti la storia di Sergio, ragazzino introverso e solitario dotato di una fantasiosa capacità di “evocare” i suoi giochi e le sue ossessioni, e di una “particolarissima” estate di inizi anni ’70 (quando non si era ancora del tutto perpetrata la devastazione progressiva della feconda inventiva infantile, che la televisione e i videogiochi hanno portato a compimento successivamente, dissanguandola lentamente, fino a disperderla del tutto) alle prese con l’ipotesi (e il conflitto) della nascita di un nuovo componente della famiglia, portato in grembo dalla madre, che gli suscita sentimenti contrastanti e che genereranno poi fortissimi sensi di colpa e di autopunizione quando interpreterà l’imprevisto e improvviso aborto della genitrice (quasi “un rito di sangue”) dovuto a cause del tutto naturali, come il frutto e la conseguenza della sua “volontà” di bramare la morte dell’indesiderato per non perdere il privilegio. Si avverte una aderenza profonda da parte del regista con le tematiche narrate come se visualizzasse, per esorcizzarla definitivamente, una sua personale esperienza passata dalla quale finalmente può prendere la necessaria distanza e oggettivizzare così il ricordo e convivere pacificamente con il rimpianto e la tenerezza, proprio come saprà fare il protagonista in un finale “magicamente poetico”, davvero molto commovente e partecipato. Il tocco è leggero, soffuso di un sottofondo di acre e non conciliante ironia; il quadro è nitido e realisticamente efficace; i caratteri tratteggiati in punta di lapis ma limpidi e veritieri, precisi e credibili, assolutamente realistici. Le apprensioni del piccolo Sergio, sono rappresentate con una tenerezza quasi pudica che trasmette tutto il calore di una partecipazione fortemente emotiva. A nostra volta allora, quali spettatori pensanti e coinvolti, diventiamo parte attiva di quell’angoscioso percorso maturativo dell’infanzia alle prese con le prime imponderabili difficoltà, che molti della mia generazione, in una maniera o nell’altra, hanno vissuto sulla propria pelle come il momento doloroso della presa di coscienza dell’inevitabile perdita dell’innocenza. Insomma un film piccolo ma non secondario, “importante” e “necessario” che qualcuno prima di me ha definito magistralmente su questo sito come un’opera “imperfetta ma estremamente tenera, da difendere ed inseguire” (e io non posso che associarmi al suo pensiero, ripetendo pedissequamente le sue parole, perché non sono capace di trovare niente di più adatto ed efficace per rappresentarlo in maniera esatta, concreta e tangibile).

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