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Bussano alla porta

Regia di M. Night Shyamalan vedi scheda film

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Questo testo contiene anticipazioni sulla trama.

La recensione su Bussano alla porta

di imoneS
7 stelle

Cosa fareste se quattro estranei bussassero alla vostra porta chiedendovi di sacrificare un vostro amato per salvare l’umanità? Questa la domanda che Shyamalan pone allo spettatore in Knock at the Cabin inserendosi, ancora una volta, nella lunga tradizione degli “high-concept movies”, caratterizzati dalla possibilità di essere riassunti in una frase sintetica, o come in questo caso, in una domanda. A distinguere ancora una volta il suo cinema, però, è proprio la capacità di trovare una sintesi tra le forti premesse, che solitamente fanno presagire un interesse marcato verso questioni filosofico-esistenziali di larga scala, e l’interesse per l’approfondimento dei suoi personaggi e dei microcosmi in cui la vicenda ha luogo. Questo tracciato concettuale, già presente in The Happening e Signs, restituisce il quadro di un cinema in tensione tra le tendenze del genere, quindi una facile incasellabilità nei vari stilemi di riferimento, e un cinema che vi si oppone appena ne ha la possibilità, preferendogli una mescolanza ludica di generi e ispirazioni.

 

Difatti, benché l’impostazione rimandi al cinema home invasion, si osserva un parziale ribaltamento - agli assalitori non è concesso ferire i protagonisti ma il loro ruolo è comunque relegato alla figura di messaggeri. Questo capovolgimento è osservabile anche da un punto di vista formale, in quanto la strutturazione degli spazi è rigida: i movimenti all’interno della casa sono fissati sulle assi e dunque scompaiono quelli circolari tipici di questo filone - a eccezione di due momenti, uno in cui la coppia riesce a liberarsi e l’altro in cui Wen scappa. Operazione simile si riscontra anche nel film precedente, in cui il sentimento di claustrofobia viene restituito da spazi aperti ed è invece la macchina da presa a incorniciare e schiacciare i personaggi.

 

Il modo in cui i personaggi vengono scrutati (e studiati) rimanda al Kammerspiel - la mdp come lente d’ingrandimento, pronta a cogliere il più impercettibile movimento del viso. In entrambi le vicende si snodano in un ambiente chiuso che non permette ai personaggi di fuggire, per ostacoli mentali oltre che fisici, in quanto le chiavi di lettura con cui i personaggi cercano di cogliere i segni e interpretarne i significati rappresentano un meccanismo di difesa, e una presenza fortemente manipolatrice funge da motore (e risoluzione) di ambedue le storie.

 

A sx Old, a dx Knock at the Cabin

 

I punti di contatto tra i due film sono molteplici e non sarebbe quindi azzardato ipotizzare che si tratti di un dittico, formale e tematico, che pur conserva una traiettoria che collega tutta la produzione di Shyamalan. Nel tracciare un fil rouge nella sua produzione è rilevante ricordare che sia Old che Knock at the Cabin sono adattamenti di materiale fumettistico e letterario (”Sandcastle” di Levy e Peeters/”The Cabin at the End of the World “di Paul G. Tremblay) che il regista modella sulla base della sua personale idea di cinema. Non a caso, a deviare dal materiale di partenza, sono soprattutto i finali. Proprio da quest’ultimi si può partire (e forse si deve) per operare un’analisi retrospettiva che aiuta a comprendere meglio il cinema di Shyamalan. Se in Old il regista piegava il concept a una giustificazione metacinematografica, incarnandosi in un personaggio che aveva il compito di osservare gli altri, in Knock at the Cabin “la baita di bambole” è oggetto di una divinità di chiara ispirazione cristiana. Un passo indietro in positivo che lima una delle tendenze più discutibili del cinema di Shyamalan, spesso chiuso nell’autocompiacimento di chi si riconosce demiurgo della propria creazione.

 

Il film si apre seguendo le azioni di Wen, figlia adottiva di Eric e Andrew, intenta a catturare le cavallette in un barattolo di vetro per studiarle. Questa proiezione manipolativa, sebbene evidente, viene però indirizzata a entità di ordine via via superiore, prima per età e stazza (Bautista in quanto leader dei sequestratori) e poi per grado metafisico (il Dio austero dell’Antico Testamento). In questo modo Shyamalan si autoassolve dal suo ruolo di marionettista, diventa un venditore di aria fritta - fino ad apparire come televenditore di friggitrici ad aria, confinato nello schermo della tv per pochi secondi. Al finale non resta altro che restituire consistenza alla figura manipolatrice, legittimando l'Apocalisse e le sue regole, annullando i vari depistaggi disseminati nel corso della narrazione.

 

In foto: la verticalizzazione del potere manipolativo, da Wen che osserva le cavallette a “Dio” che scatena l’Apocalisse

 

La presenza di una divinità, inequivocabile o meno che sia, rimanda ancor più prepotentemente a un discorso di fede e dubbio, che qui diventa molto più letterale che nel resto della filmografia di Shyamalan. A essere messe in dubbio non sono solo le convinzioni religiose, già rappresentate dallo scontro dialettico tra gli assalitori e la coppia, ma soprattutto le convinzioni relative alla logica razionale e intuitiva che abbiamo della realtà. Subito dopo il ribaltamento della dinamica di potere, momento in cui la coppia riesce a rinchiudere Leonard/Bautista nel bagno di casa, lo spettatore - ormai in totale identificazione con i protagonisti - è portato a credere che quest'ultimo sia fuggito attraverso una finestra, evidentemente troppo piccola per la sua stazza. Qui Shyamalan, come in un gioco di prestigio, trasferisce il dubbio dalla plausibilità fisica (la finestra è troppo piccola, non può essere passato da lì) alla possibilità cinematografica (il montaggio gli ha consentito di oltrepassare quel limite fisico). Un dubbio che si interroga sulla realtà delle immagini, come già accadeva nelle sequenze in cui venivano mostrati filmati pre-recorded di un servizio giornalistico.

 

 

Alla fine ciò che rimane del film, spogliato del concept di partenza, è l’idea che ogni personaggio stia cercando di raccontare una storia, di portare avanti una narrativa, e questo lo rende modello esemplare del cinema di Shyamalan, quasi didattico nella sua schiettezza - ognuno di loro è una pedina i cui gesti si rivelano essere parte di un fatale determinismo. Non c'è più spazio per il colpo di scena, dopo averlo già portato alle sue estreme conseguenze in Old, perché non sembrano esserci più scelte. L'orrore è il dipanarsi di questa realizzazione, minuto dopo minuto. Eppure uno spiraglio rimane, perché l'umanità è una luce riflessa su uno specchio, non importa il cosa accade ma il come. E Shyamalan, come i suoi personaggi, lo dimostra ancora una volta.

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