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Made in USA - Una fabbrica in Ohio

Regia di Steven Bognar, Julia Reichert vedi scheda film

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La recensione su Made in USA - Una fabbrica in Ohio

di Andreotti_Ciro
7 stelle

A Moraine, a pochi chilometri da Dayton (Ohio), la Fuyao industries, multinazionale cinese nella lavorazione del vetro, nel 2015 acquisisce quel che resta di un vecchio stabilimento della General Motors chiuso durante la crisi economica del 2008. L’arrivo della nuova proprietà ridà slancio all’economia locale ma ben presto quella che sembrava una grande occasione lavorativa si trasforma in uno scontro fra culture profondamente diverse fra loro.

 

Il primo lungometraggio prodotto da Michelle e Barack Obama, di loro proprietà infatti la casa di produzione Higher Ground Productions, fa rimanere la coppia di cineasti, nella vita come sul set, Julia Reichert e Steven Bognar sempre nell’Ohio e a pochi chilometri da un loro precedente documentario, The Last Truck: Closing of a GM Plant nel quale narravano della chiusura di uno stabilimento della General Motors e di come questo potesse modificare, in peggio, la vita degli operai e delle maestranze dell’indotto. Questa volta invece la narrazione parte da dove si era conclusa quella precedente esperienza. La crisi del 2008 ha fatto sparire l’ennesima fabbrica di grandi dimensioni del colosso automobilistico di Detroit. La comunità locale non se la passa bene e a nulla valgono i picchetti per impedire alla General Motors di chiudere definitivamente una linea produttiva che da di che vivere a centinaia di famiglie. A salvarle, in una sorta di colonizzazione al contrario, ci pensa, a distanza di anni, la Fuyao industries, multinazionale della lavorazione del vetro che vuole delocalizzare negli Stati Uniti la propria produzione. Cao Dewang, presidente della Fuyao, decide di puntare forte sulla nuova realtà statunitense, ingaggiando gli ex dipendenti della GM e affiancandoli a centinaia di operai cinesi che si dovranno trasferire a Dayton per apprendere gli standard americani e imporre i propri a operai poco avvezzi a turni massacranti e alle richieste della proprietà straniera. Lo scontro di civiltà, più che economico, è assolutamente servito su un piatto d’argento. La bravura dei protagonisti è la capacità di essere naturali di fronte alla telecamera. Così come quella di chi riprende pazientemente i turni di lavoro e le impressioni a caldo degli operai e ingeneri, ma anche della proprietà, è l’essere stata in grado di non farsi sfuggire nessun retroscena, nessuna frase scomoda, nessuna impressione sconveniente. Le riunioni dirigenziali. Le adunate aziendali per compiacere la proprietà, con inaugurazioni paramilitari e sorrisi di convenienza, sono documentate senza che si verifichi la minima ingerenza fra troupe e protagonisti. Il quadro che se ne ricava è la differenza abissale fra due pensieri opposti che portano alla medesima conclusione. Il senso di quello che facciamo compiace noi o deve anche compiacere chi ci stipendia? E inoltre è giusto lavorare con salari troppo bassi e con standard di sicurezza scadenti? Difficile trovare risposte univoche fra culture così differenti ma che alla fine della visione sono riuscite bene o male a integrarsi. Da vedere se si desidera riflettere su cosa possa in futuro accadere alla nostra esistenza e su che deriva possa prendere la vita di ognuno di noi.

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