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Demoniaca

Regia di Richard Stanley vedi scheda film

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George Smiley

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La recensione su Demoniaca

di George Smiley
8 stelle

Richard Stanley dirige dopo "Hardware" un altro piccolo cult-movie dell'horror anni '90, poco conosciuto ma meritevole di essere riscoperto e apprezzato fino in fondo.

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"Demoniaca" (in originale "Dust Devil") del 1992 è il secondo lungometraggio del sottovalutato ma talentuoso Richard Stanley, attivo principalmente come regista di videoclip e di film horror e già autore nel 1990 dello splendido cult cyberpunk "Hardware - Metallo letale", il quale dovrebbe tornare presto in sala dopo un lungo esilio con "Color Out of Space", tratto dall'omonimo racconto del solitario di Providence, Howard Phillips Lovecraft, con Nicolas Cage protagonista. Quale modo migliore per riaccoglierlo tra noi di una bella recensione su un film che rappresentava da tempo una lacuna da colmare per il sottoscritto?

Ispirata alle leggende animiste del deserto sud-africano, la trama ci presenta sin da subito quello che sarà l'antagonista principale della pellicola nonchè il suo personaggio più carismatico e misterioso (del quale non sapremo mai il nome umano): un affascinante uomo vestito da cowboy americano (Robert John Burke) che vaga per le strade desertiche della Namibia, dietro le sembianze del quale si cela un demone della sabbia, ovvero uno spirito mutaforma esistente dall'inizio dei tempi che bracca le persone sofferenti e prive di speranza per ucciderle e nutrirsi della loro anima (la cui figura pare ispirata a quella del serialkiller sudafricano Nhadiep). L'ultima vittima designata della scia di sangue che si lascia appresso è Wendy Robinson (Chelsea Field, la moglie di Bruce Willis ne "L'ultimo boy-scout"), donna in fuga dal marito e da un'esistenza infelice. Sarà braccato dal tormentato detective Ben Mukurob (Zakes Mokae), deciso a distruggere la temibile creatura una volta per tutte.

Esteticamente il film, nonostante un budget contenuto, è estremamente curato e stilizzato, con forti rimandi nell'ambientazione, nella fotografia e nella colonna sonora (composta da Simon Boswell, lo stesso di "Phenomena", "Demoni 2", "Deliria", "Hardware" e "Il signore delle illusioni") ai nostrani spaghetti western, con trovate di regia estremamente eleganti e di sicuro impatto visivo. I ritmi sono dilatati, cosa insolita per un horror ma non per un western, con la narrazione che assume sempre più connotati metafisici in un clima generale di attesa. I personaggi sono ammantati da un'aura di tristezza e fatalismo, braccati non solo dal mostro ma anche dai propri vissuti infelici che ne condizionano il presente, vittime del senso di colpa, della mancanza di affetti e di un vuoto interiore la cui unica via d'uscita è rappresentata dalla morte. Anche il contesto in cui il film è ambientato sembra sottolineare l'atmosfera di pessimismo che lo attraversa: siamo nel 1990, proprio nei giorni in cui viene sancita l'indipendenza della Namibia dal Sud Africa, ma questo non pare di conforto ad una popolazione rabbiosa e attraversata da insanabili conflitti etnici e sociali. Il finale sembra precludere ogni possibilità di riconciliazione pubblica e privata e sancisce il perpetuarsi di una parabola dolorosa e disperata nel vissuto umano.

Con questo film Richard Stanley ha confermato le sue notevoli doti dietro la macchina da presa e la sua originalità di sceneggiatore, regalandoci una delle doppiette più clamorose degli anni '90 in ambito horror, alla quale purtroppo non ha dato quasi seguito. Speriamo che il suo ritorno in sala con "Color Out of Space" possa riportarci alle atmosfere e ai livelli delle sue prime opere.

P.S.: la versione recensita è la Final Cut montata dal regista della durata di circa 105 minuti.

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