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Hanno fatto di me un criminale

Regia di Busby Berkeley vedi scheda film

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La recensione su Hanno fatto di me un criminale

di spopola
6 stelle

Busby Berkeley è entrato a far parte della storia del cinema per il notevole, personale e preziosissimo contributo che ha fornito nello specifico settore del musical, con particolare riferimento alle “invenzioni” coreografiche dei numeri da lui diretti, nella realizzazione dei quali ha spesso rasentano il vertice della genialità assoluta, non certo per la corretta, professionale, ma tutto sommato impersonale regia di “Hanno fatto di me un criminale”. Qui si respira infatti un’aria decisamente più in sintonia con le “linee guida” che caratterizzano tutte le pellicole di questo genere realizzate in quegli anni all’interno dello studio che ha prodotto il film (la Warner Bros) che non con la estrosa creatività del regista. Non ci sono insomma voli pindarici o impennate capaci di farci “riconoscere” la mano del suo autore, ma solo una buona dose di appassionato realismo (partecipato, ma certamente di maniera) tipico dell’epoca – quel marchio distintivo che caratterizzava differenziandole le varie majors – decisivo e importante nella Warner, per definire i criteri necessari a fornire una (forse discutibile) ma a abbastanza attendibile “cornice documentale” quasi in presa diretta, seppure “revisionata” in chiave sentimentale, del “clima” e della “temperatura” di un “dissesto sociale” particolarmente drammatico che aveva costretto in ginocchio l’America tutta – e principalmente le rurali periferie suburbane senza speranza abbandonate da Dio e dagli uomini - negli anni della grande depressione economica successiva al 1929, dove per molti era davvero la boxe a poter rappresentare l’unico concreto elemento di “speranza” per un ipotetico (e spesso impossibile) “riscatto” sociale dalle privazioni della miseria. Remake di un film del 1933 interpretato da Douglas Fairbanks jr. e diretto da Archie Mayo, “Hanno fatto di me un criminale” racconta la storia di un pugile di buon successo, costretto a nascondersi in Arizona - dopo essere stato dato per morto a seguito di una serie di fortuite coincidenze che lasciano dubbioso uno scrupoloso poliziotto impegnato nella sua ricerca - per sfuggire all’accusa di un omicidio in effetti commesso dal suo poco raccomandabile manager, e della sua “seconda vita”, che rappresenterà anche un “riscatto” non solo personale e morale, ma anche dei sentimenti, in una specie di fattoria dove una ragazza e sua nonna tentano di rieducare alla vita un gruppo di adolescenti diseredati “sottratti” al riformatorio. Anche la repentina conclusione “in positivo” è tipica del periodo, oggettivamente poco credibile, ma conforme con la tesi di fondo che si voleva far passare, piena di buonismo e di “edificante sentimentalismo”. Il valore maggiore che possiamo attribuirgli quindi, a parte questa “speciale aderenza quasi documentaria” alle condizioni di vita della povera gente sull’orlo dell’abisso ma dall’animo gentile, è quella di annoverare fra i suoi protagonisti, nella parte appunto dell’ “impavido eroe dai trascorsi non del tutto adamantini, ma dal cuore d’oro e lo spirito indomito”, il grande John Garfield, qui evidentemente ancora nella fase di “rodaggio” del semi –esordiente, e quindi non al meglio delle sue capacità espressive (si tratta se non erro della seconda pellicola da lui interpretata): in ogni caso una una tappa importante, fondamentale e decisiva per la messa a punto della strategia interpretativa del “ribelle” vessato per reati che non ha commesso, costretto a difendersi fra mille difficoltà, ma capace, con la disperata caparbietà del positivismo che lo contraddistingue, di rifarsi una vita e di “risalire la china”, che rappresenterà una delle caratteristiche peculiari che tratteggeranno con varie sfumature ed esiti, il profilo artistico di quasi tutta la sua – purtroppo breve - carriera professionale. Di non particolare interesse la resa degli altri attori, da un Claude Rains solo di maniera nella parte del persecutorioe in fondo "comprensivo" poliziotto, alla incolore pateticità di Gloria Dickson, trepidante e determinata innamorata dalla capigliatura troppo bionda per essere credibilmente vera. Ann Sheridan – bellissima come al solito e primo nome del cast femminile, ma assolutamente sottoutilizzzata – ha in effetti una parte decisamente marginale e “sparisce” quasi subito dalla scena senza lasciare precipue tracce, se non quella rappresentata dalla sua “specialissima avvenenza fisica”.

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