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Il ginocchio di Claire

Regia di Eric Rohmer vedi scheda film

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La recensione su Il ginocchio di Claire

di luisasalvi
4 stelle

Un brutto inutile banalissimo atto di onanismo intellettuale, ovviamente sterile (per definizione), e neppure compiaciuto: perché la cosa più buffa delle seghe intellettuali è che, a differenza di quelle materiali, non danno piacere a chi le fa (o almeno non ne danno l'impressione osservandole) ma solo ai critici guardoni.

L'avevo già visto tempo fa; persuaso dagli entusiasmi della critica che ha scoperto il genio di Rohmer, avevo seguito con attenzione tutti i pochi film che la televisione proponeva; ma ricordo un senso di noia generale, di scontato e sciatto. Rivedendo questo ieri sera non me ne tornava alla mente nulla, come se non l'avessi mai visto (o davvero non l'ho mai visto?); comunque, dialogo confuso e banale, con incoerenze che non hanno nessuna giustificazione psicologica né espressiva (ma a tutto si può trovare giustificazione; sono certo che il regista sa i motivi esatti di ogni scelta, e potrei trovarli anche io, forse gli stessi, perché anche la banalità intellettuale è un male comune; ma non è un motivo per distribuirla). La recitazione è sciatta, anche questo probabilmente per "precisa" scelta, affatto gratuita. Confesso di non esser riuscito a vederlo tutto, e il nastro è già pronto per un altro film, senza alcun rimpianto. Prossimamente rivedrò l'unico altro film di Rohmer che ho registrato, Il segno del leone, che ricordo male come gli altri, ma con l'impressione di qualcosa di appena meglio: credo che cancellerò anche quello...  Mereghetti: "costruito con un'intelligenza, cinematografica e non solo, sopraffina": sì, un film che sembra nato da questo tipo di critici, e fatto a loro esclusivo godimento. Idem Di Giammatteo: "la graziosa e tenerissima storia di una (casta, elegante) infatuazione". Semmai è proprio la descrizione di una masturbazione intellettuale, abbastanza autocritica; ma non è sufficiente a giustificarla: già Croce aveva scoperto che il grido di dolore di una madre che ha perduto il figlio, per toccante che sia, non basta a fare arte; e non basta neppure la registrazione di una confessione o di una seduta dall'analista, tanto meno di un regista che non è né confessore né analista: Fellini è artista sommo anche quando "confessa" (no! "descrive", artisticamente) la propria mancanza di ispirazione; ma non basta per fare arte. Quanto alla "castità" della storia, è forse l'immagine più riuscita del film, metafora del regista e dei critici cui si rivolge: solo l'impotenza e la sostanziale mancanza di stimoli consentono di presentare come "casti" dei rapporti così vistosamente ambigui con l'altro sesso, fatti di abbracci, carezze e ogni altro rito di corteggiamento, ma non presentato come tale, e con tutte, come asettico: in un adolescente timido è dolorosamente vero, ma con ben altra intensità, vissuto con forte carica sessuale e senza alcuna illusione di castità, anche se tale risulta a chi lo osserva (in base al principio ben noto che l'innocenza appare tale solo quando la si è perduta); è morbosamente vero anche in vecchi amorali che credono di ingannare l'innocenza (che non è tale, in base allo stesso principio di prima: lo sarebbe solo vivendo come colpa una forte passione, ma non con un vecchio ipocrita); è pateticamente vero anche per molti omosessuali sensibili all'amicizia femminile ma privi di desiderio (ma quanto più sottilmente ambigua la reazione femminile, in un misto di commossa esaltante illusione di accettazione di questa imposta castità e di frustrante sfida della propria femminilità inefficace); ma un uomo "vissuto", adulto e esperto e colto e cinico quanto basta, può vivere con indifferenza queste vicende solo se è costretto a recitare un film in cui non crede, e lo fa per noia, non per amicizia, verso una scrittrice che a sua volta finge di voler tirare le fila di ciò che la circonda per farne un romanzo. Potrebbe essere tutto vero anche questo, o essere tutto una bella metafora; in realtà è solo una brutta e contorta e falsa metafora che si serve di una banale e ambigua storia, sul modello dei recenti Teorema e Porcile, già discutibili, ma migliori di questa imitazione. Il protagonista di Teorema distribuisce il suo seme, senza desiderio e senza amore, con indifferenza; questo non lo distribuisce, non ottiene e non provoca nulla, e anche la metafora è meno trasparente; ma se lo fosse di più non ci guadagnerebbe: resta un brutto inutile banalissimo atto di onanismo intellettuale, ovviamente sterile (per definizione), e neppure compiaciuto: perché la cosa più buffa delle seghe intellettuali è che, a differenza di quelle materiali, non danno piacere a chi le fa (o almeno non ne danno l'impressione osservandole) ma solo ai critici guardoni.

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