Tutto quello che vedi sullo schermo è stato scritto. Tutto. I TikTok che guardi a tempo perso, le pubblicità che skippi prima dei video su YouTube, persino il film di Matteo Garrone, Io Capitano, che quest’anno ha vinto il Leone d’Argento a Venezia.

Nel caso di Io Capitano ci sono voluti anni per raccogliere il materiale e la documentazione, per ascoltare i testimoni. Infine, sono occorsi altri sei mesi di scrittura per arrivare a un lungometraggio in cui tutto sembra accadere in modo “spontaneo”. Perché, se non è detto che quello che viene scritto accadrà sullo schermo, la scrittura è un passaggio necessario e determina la differenza tra un prodotto emozionante e coinvolgente e uno che non lo è. Questa libertà tra lo script e la realizzazione effettiva vale anche per la scrittura cinematografica classica.

“Per essere uno sceneggiatore o sceneggiatrice non si richiede solo di saper scrivere”, afferma Alberto Marini, sceneggiatore e docente del Training Camp Scrivere per il cinema della Scuola Holden. “Il nostro lavoro richiede la consapevolezza che uno script è un testo aperto, che cambierà, si trasformerà, crescerà o peggiorerà senza di noi, senza il nostro controllo diretto, fino a trasformarsi in un film. Scriviamo per il pubblico, ma chi legge e usa il nostro testo saranno i produttori, i registi, gli attori, i tecnici, ecc... gente creativa, con il diritto e la libertà di cambiare ciò che loro considerano opportuno. Per questo motivo, scrivere per il cinema implica il superamento della frustrazione autoriale e richiede di sapersi muovere tra due acque. Bisogna lasciare margine a chi verrà di usare il nostro testo per farlo diventare un film, però, al tempo stesso, definire i limiti invalicabili che rappresentano l’essenza e l’intenzione della storia”.

Si muove tra due acque anche il documentarista, che sembrerebbe più vincolato al “reale”: la verità è che lo sguardo è in grado di determinare la qualità della scrittura e quindi del documentario finale.
“Quando mi preparo a realizzare un film documentario, ciò che mi attira di più è comporre una geografia del paesaggio” racconta Gianfranco Pannone, documentarista e docente del Training Camp Scrivere un documentario. “Una geografia personale, alimentata sì dalla curiosità del mondo, ma anche dalla mia cultura di provenienza, e che parte da elementi autentici, concreti. Come accade con certi ‘non luoghi’ americani fotografati da Wim Wenders, che trovate in quel meraviglioso libro di immagini e parole che è Una volta, dove un’altra America viene fuori grazie all’occhio attento e disincantato dell’europeo. Dal canto mio, la preparazione sul campo in vista della scrittura e delle riprese di un documentario è fondamentale. Si tratta, insomma, di appropriarsi del luogo lasciando momentaneamente da parte la camera, per cogliere con il corpo e con la mente, a mo’ di rabdomanti, visioni, odori e sensazioni, per farli propri e inserirli poi nella scrittura, che è la seconda tappa di un lungo percorso. Tutto questo comporta una capacità di stare dentro e fuori le cose che avvicina il documentarista all’antropologo. Dentro nel cogliere le emozioni che il luogo suscita, fuori adottando una giusta distanza dal paesaggio, qualunque esso sia. Paesaggio che a me piace leggere anche nei volti delle persone, carte geografiche pure meritevoli della nostra esplorazione, e che mi aiuta a comprendere quanto non sia poi così importante cosa vedi, ma piuttosto cosa sai e vuoi vedere.”

Anche l’ambito televisivo obbedisce alle sacrosante leggi della scrittura, come ci spiega Katiuscia Salerno, autrice televisiva di programmi come Temptation Island e docente del Training Camp Scrivere Format Tv.

“Spesso si pensa che l’intrattenimento televisivo sia improvvisazione. Che i presentatori e le persone che intervengono e interagiscono con loro si muovano a piacimento e dicano qualsiasi cosa passi loro per la mente nel momento in cui la telecamera è accesa e puntata su di loro. Be’, non è così. La televisione è finzione 25 fotogrammi al secondo. E per finzione non intendo falsità, ma rappresentazione di aspetti della realtà, scelta, preparazione, organizzazione: scrittura, insomma. In TV le parole, così come i gesti, le azioni, la conquista degli spazi a favore di telecamera, risultano spontanei proprio perché sono scritti in anticipo, studiati, calibrati. E se un imprevisto incalza, è proprio l’esperienza di scrittura che lo rende, in un baleno, un elemento di racconto ben accetto. Per i film e le serie televisive esiste una sceneggiatura, per l’intrattenimento invece bisogna creare un motore narrativo, una strategia comunicativa, una particolare tensione emotiva verso chi guarda e ascolta. E per far questo bisogna imparare a scrivere il non scritto. Oppure, per quanto riguarda i format originali, quello che ancora non è stato scritto. Non vi sembra affascinante come sfida?”

I Training Camp della Scuola Holden sono percorsi per chi ha già una storia o un progetto narrativo abbozzato e ha bisogno di svilupparlo con la guida di un professionista. Si arriva con una storia, la si fa crescere durante il laboratorio, e alla fine si ha l’occasione di presentarla a un panel di esperti del settore. Dopo un Training Camp, molti allievi hanno visto i loro lavori pubblicati, realizzati o finanziati.

L’11 novembre sono in partenza Scrivere per il cinema, Scrivere un documentario e Scrivere Format Tv: si ha tempo fino al 1° ottobre per mandare il proprio progetto a trainingcamp@scuolaholden.it.

Chi è curioso e ha domande può parlare direttamente con i maestri e la maestra, insieme al team didattico dei Training Camp, durante tre incontri gratuiti online:

Scrivere per il cinema, con Alberto Marini
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Scrivere un documentario, con Gianfranco Pannone
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Scrivere format TV, con Katiuscia Salerno, incontro martedì 19 settembre alle 13.
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