Uno, nessuno, centomila Richard Linklater. Proprio come Gary, il protagonista del suo ultimo film Hit Man - Killer per caso (Fuori concorso a Venezia 80), il regista di Boyhood è un coacervo di contraddizioni, un oggetto non identificato e irriducibile alle classificazioni del cinema (indipendente?) americano. Lo si potrebbe definire un jock, un campione mancato di baseball, texano fin nel midollo. Ma d’altra parte lo si potrebbe anche vedere come un nerd cinefilo all’ultimo stadio, che nei suoi film non fa che parlare di filosofia e interrogarsi sulla natura umana (la Austin Film Society da lui creata parla da sé). E la sua filmografia rispecchia questo: ora sperimentale ora di genere, ora geniale ora fallimentare. Hit Man parla di questo, in fondo: di identità contraddittorie, di uomini che si pongono di fronte a un destino segnato e giocano ad alterarlo. Pur raccontando, in apparenza, di un medioman costretto dalle circostanze a fingersi un sicario, nella sostanza ci presenta una crisalide in cerca di un costume adatto a spiegare le ali, così curiosa sulla natura umana da credere che un avatar sia più vero del vero. Gary, come Linklater, affronta imprese da temerario con il cuore di un bambino: crede in quello che fa, è sincero, in un certo senso anche ottimista.

Potremmo definire un ottimista Richard Linklater? O la cosa suona come un insulto?
Penso di potermi definire tale, in sostanza. Anche essere un genitore è una forma di ottimismo, così come realizzare un film e sperare che qualcuno lo apprezzi o magari lo guardi nel futuro.
Gary, il protagonista del film, intraprende un percorso rischioso perché mosso - un po’ come il tuo cinema - dalla curiosità verso la specie umana, più che da un interesse specifico, non trovi?
Il vero Gary Johnson che ho conosciuto (e a cui sono ispirate le vicende di Hit Man, nda) era davvero un tipo affascinante, un insegnante che studiava la vita, in una ricerca infinita per capire di più della natura umana. Fondamentalmente la sua è una storia sul senso smarrito e fluido di identità nella contemporaneità, che da sempre cerco di indagare con i miei film. Qualunque sia il genere - thriller, crime, commedia - la domanda che mi pongo è sempre la stessa: chi siamo? Possiamo davvero cambiare durante le nostre vite? È qualcosa che riguarda oggi in modo particolare i giovani, che si domandano: posso diventare chi vorrei essere? Riguarda la capacità o l’incapacità di accettare le nostre vite e il futuro che ci è toccato in sorte.

Con un livello di astrazione in più Hit Man diviene pure una riflessione sul ruolo di attore, che investe sempre più la nostra quotidianità. Stiamo tutti recitando una parte indossando una maschera 24 ore su 24? Anche le scene più comiche, come quando Gary “interpreta” American Psycho, rendono esplicito questo assunto “pirandelliano” e tragicamente attuale sulla natura dell’avatar.
Essere un umano in una situazione sociale significa in qualche modo recitare una parte. Siamo tutti attori, in un certo senso e a un certo livello. La nostra interazione con gli altri è basata su una finzione. E l’hit man, il sicario, è un prodotto della pop culture al 100%: ha invaso il nostro sistema di credenze a tal punto che le persone sono offese quando scoprono che non esiste e si tratta di una fantasia. In fondo quel che vale per il noir non è così dissimile da ciò che valeva per il western, il più grande genere nella storia del cinema. Il mito del Vecchio West si basa su un periodo brevissimo della storia americana, corrispondente a circa 13 anni, di fatto totalmente diverso da come è stato rappresentato al cinema. Il protagonista interpreta quello che i suoi “clienti” si aspettano da un sicario, lavora esclusivamente sulla loro percezione di realtà, ormai disperatamente divaricata dalla realtà stessa.
La sequenza con quel mirabile montaggio cinéphile di grandi film noir sottolinea proprio il lato di astrazione dal genere, insistendo su un caposaldo come La farfalla sul mirino di Seijun Suzuki, che in sostanza era già l’ultimo film su uno hit man...
Decostruire il genere è divertente rispetto alle aspettative dei cinefili. A Venezia, dopo la prima del film, mi sono sentito dire che nelle varie sezioni c’erano ben quattro film sui sicari (tra cui The Killer di David Fincher, nda), ma la cosa mi lasciava molto perplesso. La mia, infatti, è una decostruzione di questo genere, non una celebrazione dello stesso o un titolo di exploitation...

Semmai Hit Man è una commedia, benché l’happy end sia sfumato di nero pece. In questo senso si riavvicina a Bernie, anch’esso basato su una vicenda di cronaca e anch’esso all’insegna del riso amaro... Ti trovi particolarmente a tuo agio con la black comedy?
Credo sia vicina alla mia visione del mondo, che trovo assai buffo in generale, ma davvero cupo vicino ai bordi, quando si vede di cosa siamo capaci come esseri umani. Ho ascoltato i nastri di questi potenziali clienti di un sicario inesistente ed emergevano personaggi involontariamente comici, ma capaci - a parole, quantomeno - di crudeltà inimmaginabili.
Ogni tuo film è una sorta di sfida, da quelle eclatanti e autoesplicative come Boyhood all’insistenza sul rotoscopio. Il mondo è pieno di registi che girano film perché devono o perché pensano che sia la cosa giusta da fare, mentre sono pochi quelli che si prendono dei rischi a ogni passo...
Sono fatto così. Ho sempre cercato di mantenere un basso budget e quindi di permettermi di fare quel che volevo. Sono stato fortunato e viziato in questo senso, ma ho cercato di preservare la massima libertà in quel che faccio. Il mondo è pieno di bei film a cui non sono interessato e che non vorrei mai girare, magari anche migliori dei film che ho girato io. Ma quelli che ho realizzato erano quelli che volevo fare, al 100%. Devi essere abbastanza egoista da pensare: «Sono la persona giusta per girare questa storia e nessun altro potrebbe farlo». Ora sono a Parigi a girare un film nuovo e sto lavorando con un cast di giovani attori e sono su di giri, mi sento un regista della nouvelle vague!

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