Vermiglio, piccolissimo paese di montagna, provincia di Trento. La Seconda guerra mondiale sta per finire. In classe, i bimbi ripetono «libera nos a malo». La Liberazione è alle porte. Il maestro, severo, è anche il padre di una famiglia numerosa. La libertà si sta insinuando nella casa. Ci sono tre figlie. Una moglie e madre ancora in attesa. Un fratello piccolo, che si chiede cosa sia, questa guerra di cui parlano tutti. E uno grande, incompreso, irrequieto. C’è anche un soldato siciliano, di cui una figlia s’innamora. E la folle del villaggio, che ne affascina un’altra. Vermiglio, opera seconda di Maura Delpero («ma», ci dice, «faccio fatica a considerarlo come un secondo film, ne ho fatti tanti in 20 anni, questo è solo il secondo di fiction»), ha vinto il Gran premio della giuria alla Mostra del cinema di Venezia. Un film così, lo si capisce già dalla scelta del titolo, apparentemente semplice, in realtà sintetica e sinestetica, contraddittoria: il nome di un paese, un’idea di coralità, il bianco della neve. Ma anche un colore che sbalza, il rosso del sangue (della guerra e della morte, del ciclo mestruale e del tramandarsi biologico). «Tendo a cercare questa sinteticità primaria già in fase di scrittura: leggendo la sceneggiatura si vede già montato il film». Come avrete intuito, abbiamo parlato del suo nuovo film con la regista.

Di Vermiglio mi piacciono la sintesi e la distanza. È così difficile, oggi, spiegare cosa sia una giusta distanza. Ci spieghi la tua?
Forse si fatica a farlo perché oggi, coi social media, le immagini ci vengono addosso. A me piace il contrario: spiare. In questo film ho lavorato su due piani, opposti e complementari. Storia e storie, natura e uomo, aperto e chiuso, pubblico e intimo, in un huis clos naturale che è un paesino d’alta montagna. C’è una dialettica tra immagini molto grandi, che raccontano la maestosità, la durezza, l’immobilità del paesaggio, e poi c’è l’intimo, una piuma passata sulle braccia, sotto le lenzuola, la casa dove scaldare i piedi freddi, il letto in cui le sorelle si raccontano i segreti. Quando dovevo decidere dove mettere la camera consideravo sempre questa doppia dimensione. Ho cercato delle boe “ottico-narrative”. Quando si raccontano luoghi piccoli come un villaggio, ci sono dei posti in cui gli spettatori continuano a tornare: la casa, il letto, la chiesa, il bar. È così nei paesi: si torna sempre lì. Sono spazi che rimangono uguali a loro stessi, evolvendo nella narrazione: il letto da pieno diventa vuoto, la casa da gioiosa può diventare triste, le stesse immagini si trasformano. La camera l’ho sempre prediletta fissa, come fissa è la montagna, anche se poi, a seguire i personaggi, l’abbiamo mossa: ma è rimasta comunque un’idea di cinema legato a una dimensione fissa, quasi pittorica.

Che ricerca c’è, alla base del film?
C’erano tante cose che già facevano parte della mia memoria. Ho fatto tantissime interviste, registrando i racconti di novantenni, che si ricordano meglio il loro passato di quello che han fatto ieri, con un grande amore e una grande sofferenza per i propri ricordi. È una valle che mantiene molto, che ci tiene alla memoria. Ho trovato tanti oggetti originali. Lavoro così, con fotografia, scenografia, costumi: fornendo tanti materiali e riferimenti. E reimmaginando quel mondo pittoricamente: pensando all’autochrome, alle fotografie dipinte, a pochi colori primari, a una base desaturata su cui dovevano sbalzare pochi colori, l’azzurro, piccole punte di rosso vermiglio. Ho pensato alle porcellane danesi, al Segantini dell’inverno, a dipinti come Le cattive madri. Negli anni ho imparato a lavorare tanto prima, non avendo mai a disposizione troppo tempo e denaro per le riprese. Ho fatto un pre-casting, così come ho fatto una pre-scouting location, per cercare le facce e i luoghi. Ho chiesto a un’attrice, Alessia Barela, di lavorare per rendere gli attori una vera e propria famiglia, costruendo un senso di fiducia e comunità. Sono cose che ti servono a non perdere tempo, quando sai che non ne avrai molto. Devo arrivare alle riprese con un mondo già costruito.

Nel cambio dal primo titolo c’è uno slittamento dal singolare al corale, da La sposa di montagna a Vermiglio.
Io preferisco la coralità, narrativamente e politicamente: amo la pluralità di sguardo. È una cosa che l’industria teme, abituata come è al viaggio dell’eroe, a un protagonista con cui lo spettatore empatizza. Quando il personaggio di Pietro torna in Sicilia, ho scelto di non raccontare il suo dissidio, volevo restare nel paese, nella famiglia, su Lucia: restare e far restare lo spettatore in un’ignoranza che è simile a quella della vita. A volte si chiede ai film di raccontarti tutto, che non ti rimangano dubbi o letture possibili, invece credo che sia importante uscire dal cinema chiedendosi cosa ci sarà dopo: la vita è più grande di un film. Mi piaceva che il film avesse un andamento da romanzo, volevo raccontare il rapporto tra collettività e individuo, chiedere «chi sei tu» all’interno di una comunità, quanto hai diritto all’individualità. Uno dei punti era proprio rappresentare questa interdipendenza. La questione era come mantenere l’equilibrio di questa coralità: non è facile da gestire, c’è il rischio della dispersione, il dubbio di riuscire a creare empatia con personaggi con cui lo spettatore non passa tutto il tempo. Ho cercato di far sì che quel che accade a un personaggio avesse conseguenze su un altro. In questo modo le figure si potenziano vicendevolmente. Poi, certo, ci vuole uno spettatore attivo, capace di tenere i fili insieme, non troppo preso per mano.

Hai detto che il film nasce dall’elaborazione del lutto di tuo padre. Questo è un film però soprattutto femminile, dove il padre è figura da superare. Non a caso, credo, è interpretato da un grande attore, di forte impostazione teatrale, ingombrante, come Tommaso Ragno.
Rispetto ai film precedenti, qui gli uomini ci sono, ma in un modo falsato dalla guerra: c’è una fetta di maschile che è assente, cioè quella dell’età di leva. Il padre, che resta, non può essere solo padre dei suoi figli, ma è una figura paterna generale. E poi c’è questo maschile “rotto” di chi torna dalla guerra. Mi piaceva questo trio di sorelle che dorme nello stesso letto, come un albero da cui partono diversi rami, e questa madre che è un dietro le quinte, come tutte le donne del tempo, ma che quando c’è la tempesta prende la barca in mano. Il padre viene superato perché ha la bellezza e i limiti dell’illuminista, pensa di poter risolvere tutto con la ragione, predica, ma quando deve ponderare un’intelligenza emotiva, quella che ti serve quando la vita ti sorprende ed è più grande di te, lì è più pronta la donna, perché ha vissuto sul suo corpo la morte, ha portato in grembo bambini che non ce l’hanno fatta. Per quanto riguarda Ragno: devo dire che per lui è un contro-ruolo, dato che di frequente gli danno quello del bello e dannato. Alla base della sua parte c’è la figura di mio nonno, che aveva sì una dimensione contadina, ma anche l’amore per la cultura, che lo rende strano. Ho lavorato con la gente del luogo, alla ricerca delle facce autentiche, ma era impossibile dare a un non-attore questa dimensione sui generis.
Il film
Vermiglio
Drammatico - Italia/Francia/Belgio 2024 - durata 119’
Regia: Maura Delpero
Con Tommaso Ragno, Roberta Rovelli, Sara Serraiocco, Giuseppe De Domenico, Carlotta Gamba, Martina Scrinzi
Al cinema: Uscita in Italia il 19/09/2024
in TV: 26/05/2025 - Sky Cinema Due - Ore 11.00
in streaming: su Now TV Sky Go Apple TV Google Play Movies Rakuten TV Timvision
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