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True Detective

4 stagioni - 35 episodi vedi scheda serie

Recensione

Stagione 3

  • 0-2019
  • 8 episodi

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Eric Draven

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La recensione su True Detective

di Eric Draven
7 stelle

 

16 Gennaio 2019

 

True Detective stagione 3, recensione dei primi due episodi 

 

Ebbene, c’era grande attesa per il ritorno di una delle serie antologiche più amate degli ultimi anni, ovvero True Detective. Dopo la fastosa e irripetibile grandezza della prima stagione che, appunto, generò la true detective mania ed elesse in gloria il suo ardito creatore Nic Pizzolatto, elevandolo subito a genio incontestabile per aver dato vita, con la sua sceneggiatura nichilistica e profondamente dark, a ipnotiche atmosfere rarefatte di suadente potenza emozionale, dopo la consacrazione del suo straordinario protagonista, Matthew Conaughey che, con la sua eccezionale incarnazione dell’oramai leggendario Rust Cohle, visse un insuperabile anno mirabile, in concomitanza peraltro con la sua vittoria dell’Oscar per Dallas Buyers Club,  dopo la parzialmente deludente, forse fiacca e monotona stagione due con Colin Farrell e Vince Vaughn, eravamo tutti indubbiamente molto curiosi di assistere alle nuove, spericolate prodezze appunto partorite dalla fervida mente del suo poc’anzi menzionato “anfitrione” Pizzolatto, qui al suo terzo banco di prova.

Ecco, è ancora assai prematuro, in attesa che pian piano la HBO a puntuale scadenza settimanale rilasci gli altri episodi, poter avanzare giudizi entusiastici in merito a questo True Detective 3.

Quello che possiamo certamente affermare, dopo aver visto soltanto i primi due episodi, è che Pizzolatto, ottimamente servito dalla consueta regia malinconicamente plumbea, notturna e pallidamente ombrosa di Jeremy Saulnier (Hold the Dark), ci ha già riportato indietro con la memoria alla prima, succitata, acclamata stagione. Stagione forse non priva di difetti ma, come detto, fenomenica e probabilmente anche fenomenale.

True Detective 1 era un cupissimo noir ambientato nelle paludi della Louisiana. Sorretto, ripetiamolo, dalla performance travolgente d’un McConaughey in stato grazia, ottimamente affiancato da un altrettanto bravissimo Woody Harrelson, servito dalla regia fluidamente portentosa di un Cary Fukunaga parimenti ispirato, innestato sull’indagine di misteriosi, macabri omicidi perpetrati ai danni di giovanissime innocenze da parte di una micidiale setta satanica. E, nella superba mistura fascinosissima d’una detection intrecciata all’imponderabile natura sovrannaturale, magneticamente torbida e spettrale della vicenda, al di là di qualche trascurabile grossolanità, come già rimarcato, rimarrà indiscutibilmente una pietra miliare della televisione migliore. E della tv che, al suo zenit, si fa grande Cinema.

La stagione due invece, forse però criticata oltremodo, è stata un hard-boiled decisamente claustrofobico e ripetitivo a cui non giovarono affatto i continui cambi di registro e di regie. E, per via della sua sin troppo scontata linearità e a causa della sua ambientazione metropolitana sicuramente affascinante ma povera di respiro, deluse non poco le aspettative.

 

Qui, Pizzolatto, torna a un setting più selvaggio. Siamo nell’altopiano di Ozark e, infatti, alla fine dell’episodio uno echeggia la voce rocciosamente, magicamente melanconica e ruvidamente cristallina di Just Dropped In (To See What Condition My Condition Was In) firmata da Mickey Newbury, reminiscente dell’incendiario Bruce Springsteen (il suo album Nebraska docet), e veniamo immersi tra gli anfratti montagnosi, desolati e boschivi d’una sperduta cittadina anonima.

Un bel giorno, anzi, sarebbe più appropriato dire, in una serata apparentemente tranquilla, un padre di famiglia divorziato, un po’ scalognato e teneramente abbandonato a sé stesso, Tom Purcell (Scoot McNairy), si mette alla ricerca dei suoi due figli piccoli, fratello e sorella. Che si erano allontanati per fare un giro in bicicletta, gli avevano promesso che avrebbero rincasato per le cinque e mezza del pomeriggio e invece, a tarda notte, ancora non si sono fatti vivi e paiono essersi sperduti nella foresta. Eclissatisi nella luna piena di un day indimenticabile oramai tramontato nel buio più maledettamente stellato. Al calar tenebroso dello stesso giorno, 7 Novembre del 1980, in cui è morto il mitico Steve McQueen.

Due investigatori del posto, in pattuglia a perlustrare la zona, il granitico e ieratico Wayne Hays (Mahershala Ali) e lo sbruffone Roland West (Stephen Dorff), vengono avvertiti della scomparsa dei due bambini e subito cominciano a indagare in merito alla scioccante sparizione.

Dopo qualche interrogatorio, molti dubbi e alcune conoscenze forse centrali per la loro stessa esistenza, scoprono la verità. O meglio, Wayne Hays decide di volerci immediatamente vedere chiaro e, in tutta intrepida solitudine, inizia istintivamente a seguire una pista personale, inoltrandosi nel bosco. Dopo uno spaurito, tremante e al contempo incalzante suo peregrinare nella boscaglia, scopre il cadavere del bambino scomparso, incagliato in un giaciglio fra le rocce. Non però quello della sorella, della quale invece non c’è traccia.

 

Sottolineiamolo, è ancora prestissimo per potersi sbilanciare ma sin ad ora True Detective 3 funziona parecchio. Anche se è una “copia” della stagione 1. Tra flashback, inquadrature sui volti in macchina dei due detective e interviste per tentare di elucubrare, anatomizzare e ricomporre in analessi e flashforward lo scandirsi degli eventi trascorsi e futuri.

La prima mezz’ora del primo episodio, inoltre, avvolta dalla calda fotografia di Germain McMicking, ricorda non poco le suggestioni atmosferiche del fincheriano Zodiac.

Strepitoso Ali. Qualche dubbio invece su Dorff, bellissima, ça va sans dire, Carmen Ejogo.

Ma siamo soltanto all’inizio. Vedremo se True Detective 3 manterrà le valide premesse e promesse.

 

True Detective 3, il finale inaspettato: grande delusione o colpo di genio?

 

Ebbene, come sappiamo, in concomitanza con la Notte degli Oscar, domenica scorsa la HBO ha trasmesso l’ultima puntata di True Detective 3. Proprio negli stessi attimi in cui il suo protagonista, Mahershala Ali, ha sollevato al cielo la sua seconda statuetta come migliore attore non protagonista per Green Book.

Un attore venuto dal nulla, come si suol dire, che in una manciata di anni ha sfracellato la competizione e si è imposto come un talento straordinario del panorama cinematografico mondiale. Assurgendo sin dapprincipio a indubitabile, grande attore da tenere perennemente d’occhio negli anni a venire, dotato di un innato carisma e di una presenza scenica che, al di là della sua sbilenca andatura quasi claudicante, l’ha reso uno dei volti irrinunciabili del firmamento contemporaneo.

Green Book è davvero un grande film o è stato Mahershala Ali, con la sua prodigiosa interpretazione e la sua magnetica sordina, elegantissimamente misurata, ad ammantarlo d’un fascino maliardo tanto attrattivo?

È quello che mi domando dopo aver assistito all’ultima puntata di questa terza stagione di True Detective. Perché, al di là dei movimentati cambi di regia, dopo i primi due episodi diretti da Jeremy Saulnier, col suo inconfondibile tocco misterico e metafisico, dopo due tranche dietro la macchina da presa dello stesso suo famigerato sceneggiatore Nic Pizzolatto, per la precisione If You Have Ghosts e The Hour and the Day, e l’incursione di Daniel Sackheim, avevo avuto l’impressione, come tutti d’altronde, che True Detective 3, con tanto di apparizione in fotografia dei celeberrimi detective Rust (Matthew McConaughey) e Marty (Woody Harrelson) potesse riagganciarsi, appunto, all’ndimenticabile, giustamente celebrata prima stagione. E che potessero tornare tonanti e inquietanti i fantasmi di Carcosa miscelati in una vicenda complottistica da collegare alla storia interrottasi nelle paludi della Louisiana e ramificatasi negli altopiani montagnosi dell’Arkansas. Ma che, soprattutto, il potere fascinatorio profusoci dai primi episodi di True Detective 3, con le sue atmosfere cupamente sulfuree e macabre, fosse in gran parte adducibile a Mahershala Ali. Capace di rendere eccezionalmente sfumato il suo Wayne Hays, spezzettando la sua superba performance in micro-segmenti recitativi mirabilmente cangevoli, modulandosi in una varietà sottilmente variegata d’impercettibili cambi di registro attoriale, modellandoli a differenti e ben distinti piani temporali.

Ora invece, pur continuando a rimanere fermamente convinto, malgrado alcuni evidenti difetti, come ad esempio una certa, soporifera prolissità e una tetraggine sin troppo soffocante, che True Detective 3 sia una bellissima stagione, devo ancora una volta, oltre che complimentarmi con Ali, stringere la mano al suo creator Pizzolatto.

Sì, ci ha piacevolmente fregato. Prima illudendoci che potessimo trovarci di fronte una serie figlia di Carcosa e dello Yellow King, quindi mischiando sapidamente le carte, con morbosa raffinatezza, immergendoci in un finale del tutto imprevisto. Che svela la risoluzione, alquanto banale del caso, va detto, in solo mezz’ora e poi nuovamente mette essa stessa in discussione, fuorviando tutto l’assunto di partenza.

Perché alla fine Wayne Hays, corroso dall’Alzheimer, probabilmente, al pari di De Niro di C’era una volta in America, totalmente obnubilato e frastornato dalla sua malattia, depauperato e depistato dall’incoerenza dei suoi confusi, distorsivi allucinatori ricordi traumatici, si crea da solo la sua versione dei fatti. Forse per mettersi a posto la coscienza, senilmente riappacificandola nel darne una logica che, invero, non esiste o semplicemente non corrisponde alla veridicità degli accadimenti e del suo stesso interiore vissuto.

Filtra cioè l’intero senso di quest’indagine arzigogolata e complessa a immagine e somiglianza, forse enormemente erronea, della sua visione della vita. Secondo il suo preciso, umanissimo sguardo.

È stato tutto un abbaglio, un personale farsi quadrare il tempo (ricordate, a tal proposito, le emblematiche, esemplificative parole di Rust... time is a flat circle che si perpetua e riverbera ininterrottamente), un tempo infinito, indefinito, sfuggente com’è il tempo di qualsiasi persona. Un tempo non anagrafico bensì visceralmente congiunto inseparabilmente coi propri intimi sentimenti, col proprio io, col proprio subconscio, col proprio caleidoscopico animo in eterno tormento esistenziale.

Quindi, estremamente suscettibile di fallacità, persino di caducità e arrugginita lucidità.

Un tempo racchiuso nella purissima, inviolabile soggettività, nella propria incoercibile emozionalità.

Quante volte sarà successo anche a voi.

Ricordiamo qualcosa ma lo ricordiamo come a noi piace ricordarlo. Mentre al nostro amico, forse il Roland West di turno (Stephen Dorff) o a nostra moglie, alla quale piace peraltro romanzare gl’intrecci complicati, forse Amelia Reardon (Carmen Ejogo), i conti non tornano affatto o, comunque, potrebbero anche tornare, certo, ma secondo un’ottica più oggettiva, maggiormente analitica o soltanto più atrocemente, discutibilmente incredibile.

Allora True Detective 3, più che unirsi alla prima stagione, semmai assomiglia a un onirico, indissolubile torciglio assurdo e indistricabile da congiungere agli scollati pezzi del puzzle dell’altra serie “gemellare” della HBO, ovvero il capolavoro The Night Of di Steven Zaillian, scritto da Richard Price.

Cos’è successo?

 

 

di Stefano Falotico

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