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Rimpiazzi chiamati nel posto sbagliato. Sostituti che si sentono inadeguati, salvo poi scoprire che la loro diversità può fare la differenza. Può essere la nota stonata che aiuta l’armonia a rimodularsi su una nuova tonalità. Il film di Philippe Falardeau ci ha fatto conoscere Monsieur Lazhar, il profugo algerino capitato in una scuola media canadese - per prendere il posto di una maestra suicida -  e che di professione non era nemmeno un insegnante. Uomini come lui, nella condizione di pesci fuor d’acqua che si trovano a dover gestire il dolore di giovani estranei, sono anche Henry Barthes e Murauchi. Anche loro sono venuti a colmare un vuoto determinato, in qualche modo, dal desiderio di morire o dalla mancata voglia di vivere. In Detachment (2011),  il distacco di Barthes è un abisso scavato tra le sofferenze individuali: un fossato che si riempie di lacrime e di parole che non giungono a destinazione, neanche quando esprimono sinceramente l’odio o l’amore. Henry non può provare rancore per il nonno, ormai gravemente malato, che l’ha accolto in casa dopo la partenza del padre, ma ha fatto del male alla sua mamma, tanto da indurla ad uccidersi. E non può portare in fino in fondo il rapporto affettivo instaurato, per caso, con una prostituta bambina, che ha tolto dalla strada, ospitandola nel suo appartamento. Allo stesso modo, sembra impossibile entrare in confidenza con Meredith, la sua allieva disperata, perché incompresa da tutti, senza provocare imbarazzanti equivoci. I rapporti umani, soprattutto quelli riguardanti le nuove generazioni, sono bloccati da una reticenza che fa da copertura all’angoscia, costringendola a rigirarsi su stessa, fino a strangolare l’anima. In The Blue Bird (2008), Murauchi parla poco, e a fatica, perché è affetto da balbuzie. Sembra assurdo assegnarlo ad una classe che è stata teatro di un terribile episodio di omertà:  un ragazzo, vittima del bullismo di alcuni compagni, non è stato difeso da nessuno. E lui stesso, anziché denunciare apertamente il fatto, si è tenuto tutto dentro, fino a non poterne più, e a tentare un gesto estremo. Nessuno ha voluto ascoltare i segnali che il povero Noguchi aveva lanciato, in maniera indiretta, travestendo in battute quelle che, nel suo cuore, erano nate come suppliche. Il linguaggio è una barriera che porta alla solitudine, e che, troppo spesso, trova nel silenzio un micidiale alleato. Le voci degli altri si mescolano in un indecifrabile brusio, a cui finiamo per fare l’orecchio, diventando insensibili agli acuti che, talvolta, attraversano come lampi quell'informe rumore di fondo. Ecco perché un suono inedito, mai sentito prima, può servire a rompere la monotonia, infrangendo quella macabra abitudine che è l’indifferenza. Henry e Murauchi – come Lazhar -  sono gli uomini venuti da fuori, che non conoscono le regole della scuola, né si sognano di impararle e tantomeno di applicarle. Henry si sforza di capire, dove altri preferiscono rimproverare e punire: per questo si adegua al modo di esprimersi dei suoi studenti, accettando persino le volgarità, pur di stabilire un dialogo degno di tal nome, che si svolga da persona a persona. Muruachi, per contro, cerca di abbattere il muro dell’incomunicabilità con il subdolo potere della provocazione. I discorsi che rivolge ai suoi alunni vanno temerariamente ad inserirsi nei recessi delle loro coscienze che la memoria, codardamente, si è affrettata a cancellare. Con il suo comportamento visionario, ridona corpo ai fantasmi degli errori troppo presto liquidati come incidenti da dimenticare. Com’è strano quel professore che sembra giocare col nulla, che  schiocca ripetutamente la lingua prima di articolare le sillabe, e che ogni mattina dà il buongiorno ad un banco al quale non è seduto nessuno. Laddove Henry cerca di immedesimarsi nei suoi interlocutori, per entrare in sintonia con loro, Murauchi si muove nella direzione opposta, scegliendo l’apparente alienazione come strumento che mette in luce i paradossi irrisolti, che covano dentro, e, a distanza di tempo, possono fare ancora tanto male. Entrambi esulano intenzionalmente dal normale ruolo dell’educatore, per dare ai ragazzi un esempio, pratico e costruttivo, di come ci si possa salvare dall’omologazione. Essi intendono offrire loro una via di fuga dalle convenzioni che, pretendendo di regolamentare dall’alto i rapporti sociali, impediscono al singolo di essere posto di fronte a se stesso, e di riflettere criticamente sul proprio comportamento.  Per Henry il nemico numero uno è la ubiquitous assimilation imposta dalla pubblicità, per Murauchi è invece il livellamento perseguito dalle politiche scolastiche, che richiedono da ogni allievo la stessa performance, precisamente inquadrata in criteri puramente quantitativi. Per essere felici, bisogna essere belli, e per essere belli bisogna ricorrere alla chirurgia. Per superare il trauma occorre scrivere un componimento di riflessione, di non meno di cinque pagine, da correggere secondo le indicazioni dei professori. Le misure standard annullano le identità. E allora viva gli intrusi che osano uscire dai canoni.

 

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