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House of Boys
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HOUSE OF BOYS

Regia di Jean-Claude Schlim

(Lussemburgo/Germania 2009, 115')

Interpreti: Udo Kier, Stephen Fry

Sui lunghi titoli di coda, scorrono le immagini dei volti delle “vittime” illustri che non ce l’hanno fatta, che sono stati falciati dal flagello: Anthony Perkins, Rock Hudson, Brad Harris, e via via tutti gli altri:  una dolorosissima, interminabile catena di facce più o meno note e riconoscibili con tutto il carico di sofferenza, di morte e di rimpianto che si portano dietro,  fondamentali presenze “testimoniali” di un immaginario collettivo ormai forse un po’ sbiadito,  per tentare di risvegliare nuovamente l’attenzione e mantenerla vigile, su  una tragedia che è tutt’altro che conclusa, riportata alla ribalta, sia pure in appendice, con questa citazione “programmatica” che una volta era all’ordine del giorno,  ripartendo così dalle origini,“per non dimenticare” ciò che è accaduto e che sta ancora accadendo intorno a noi e riguarda tutti da vicino più di quanto si possa immaginare o vogliano farci credere.

Non è un omaggio ricognitivo “su ciò che  è stato” questo dunque, un’occasione sterile e patinata per storicizzare gli eventi, ma bensì  una accorata, necessaria dedica ai tanti morti “celebri”, nell’impossibilità di ricordare singolarmente tutti i nomi di uno sterminato e inesauribile  elenco in divenire, per cercare di ricreare – o stimolare - una coscienza “condivisa” sull’argomento che è ancora cronaca attuale,  fatta con un film importante e per molti versi straordinario,  che è anche il  militante contributo “conoscitivo” di  un autore a un problema che il tempo e la ricerca non hanno risolto né attenuato, ma forse reso soltanto a volte meno tragico negli esiti,  del quale ormai se ne parla troppo poco, ed è una questione soprattutto politica questa,  che coinvolge trasversalmente tutto il mondo che fa lo struzzo, nascondendo spesso la testa sotto la sabbia, con l’insipienza generalizzata dei suoi governi che fanno “male” o troppo poco (per non dire niente) soprattutto sotto il profilo dell’informazione, venendo così meno ai loro doveri, su un argomento che sembra essere ancora così scomodamente scottante da invogliare a sottostimare omertosamente il rischio, e che necessiterebbe invece di una “prevenzione” consapevole purtroppo sempre meno presente e attiva, ma che aveva dato buoni frutti in un passato non poi tanto lontano, verso una malattia contagiosa (ma trasmissibile solo con tre ben precise e identificabili forme molto circoscritte)   che ha bisogno di informazione e conoscenza per essere avversata ed evitata, e soprattutto di “protezioni” possibili e alla portata di tutti,  in mancanza delle quali continua invece ancora  adesso ad espandersi sotterranea e implacabile con rinnovato e crescente vigore (i dati parlano chiaro, non solo sulla trasversalità generalizzata dei sessi, dei generi, delle età e dei continenti, ma soprattutto sul fatto che adesso le nuove diagnosi di contagio  in forte, rinnovata  espansione anche nei cosiddetti paesi civilizzati,  riguardano in larghissima parte non “rilevazioni” di sieropositività di recentissima acquisizione, ma bensì l’evidenziazione di condizioni ormai devastate del sistema immunitario e già declinate in AIDS conclamato che lasciano poco spazio alla speranza).

Richiamare l’attenzione sul problema, invogliare ciascuno di noi ad essere più attivo anche semplicemente nel “pretendere” una salvaguardia maggiore della propria incolumità che richiede una oggettiva e approfondita conoscenza  di come stanno davvero le cose per concentrarsi poi su quello che sarebbe necessario fare e purtroppo non si sta facendo, è davvero fondamentale,  perché le cure adesso disponibili che riescono a prolungare la vita tenendo sotto controllo l’evolversi della malattia, non lo fanno certamente “a tempo indeterminato”, e hanno comunque effetti collaterali così gravi e pesanti, spesso analogamente deleteri,  oltre a rappresentare costi sociali e “personali” davvero elevatissimi per essere sottovalutati o ignorati come invece accade, lasciando così in qualche modo  erroneamente immaginare che si  sia “cronicizzata” la cosa e che la situazione non sia più tanto “grave” e preoccupante come una volta. Puntare il dito sul fatto che  conoscere il proprio status effettivo è condizione “essenziale”  per tutti, se si e avuta una pur minima promiscuità sessuale non protetta, è l’altra priorità che spesso viene disattesa e che ha un impellente bisogno di essere ripristinata. Ecco, credo che possano essere sintetizzati così i principali obiettivi divulgativi da raggiungere che si è posto un interessante uomo di cinema  come Jean-Claude Schlim,  laureatosi alla scuola di cinema a Parigi, e insignito nel 2002 per meriti artistici e sociali, del titolo di Cavaliere di Sua Maestà il Granduca Henry del Lussemburgo,  che di mestiere fa (e stando alle sue dichiarazioni vuol continuare a fare) il produttore esecutivo non solo in Lussemburgo, ma anche per produzioni internazionali (la sua fattiva attività in questo settore lo ha portato a collaborare nel corso degli anni – e si vede dai risultati pratici di questo suo primo impegno - con molte personalità di spicco della cinematografia contemporanea come il Peter Greenaway  di“8 donne e ½”, il Michael Radford de “Il mercante di Venezia”, l’Elias Merhige de “L'ombra del vampiro”, o il Roman Coppola di “C.Q.” ).

Perché lo ha fatto scegliendo però una maniera “artisticamente” valida per impostare un racconto fra musica, dramma e sentimento senza ricorrere a più strombazzati proclami o comizi un po’ retorici? Credo semplicemente  per seguire il suo istinto creativo, senza per questo rinunciare a tentare di colmare una imperdonabile lacuna, imputabile all’inaccettabile, incomprensibile, dannosissimo e preoccupante disinteresse delle istituzioni (Schlim è attivo volontario di “Stop Aids Now”, ed è stato recentemente nominato membro del “National Aids Commetee”: sa dunque perfettamente di che cosa si parla e quante reticenze esistano al riguardo).

Ha ritenuto quindi che questo suo puntare sull’intelligenza e sulla “maturità” del pubblico fruitore, potrebbe essere il mezzo “mediato”  più idoneo ed efficace per stimolare la rinascita di una “speciale” coscienza critica in ciascuno di noi, e si è assunto per questo “una volta tanto” il compito (e il rischio) di diventare  regista “in prima persona”  per realizzare un’opera di fortissimo impatto e rilevanza (questo House of Boys che è il suo primo lungometraggio e anche il progetto che gli stava a cuore da tempo, ma che potrebbe essere anche l’ultimo nel campo della regia, visto che è nato da un “bisogno” contingente e non da una ambizione personale a dedicarsi da ora in avanti a qualcosa di diverso e anche di più originale e stimolante rispetto a quello che è il  lavoro in cui  è specializzato e che intende continuare a privilegiare, il che sarebbe  a mio avviso davvero un peccato, perché le qualità che ha dimostrato di possedere, ci porterebbero a rimpiangere  la perdita di un notevolissimo e personalissimo talento che si rivela e si impone con prepotenza proprio con quest’opera introspettiva e affabulatrice, intensa e coinvolgente, tutt’altro che “perfetta” ma piena di una vitalità “immaginifica” davvero sorprendente che la fa spesso diventare empaticamente palpitante, come accade sovente alle opere prime che hanno “cuore e passione” in abbondanza, e alle quali proprio per questo loro essere “generose”, si perdonano anche eventuali, momentanei eccessi  un po’ ridondanti,  nobilitati comunque da una eccellente tenuta stilistica magari non sempre inappuntabile, ma densa di influenze e di rimandi  di forte suggestione evocativa, proprio perché  si abbevera a fonti celeberrime alle quali però più che ispirarsi direttamente, visto che lo sguardo del regista rimane comunque sempre personale e autonomo, intende riferirsi emozionalmente, con forme e maniere tutt’altro che “citazioniste”.

Diviso in due capitoli (più un prologo e un epilogo), questo film di Schlim (una coproduzione tedesco/lussembrughese), meriterebbe oggettivamente una maggiore visibilità anche  qui in Italia, dove invece a quanto mi risulta non ha trovato fino a questo momento, qualcuno interessato a distribuirlo in sala (e probabilmente, visto come stanno andando le cose, non riuscirà a trovarlo nemmeno in seguito, ed è sconfortante doversi affidare alla casualità di certe programmazioni un po’ repentine per vederlo, che purtroppo non riescono a compensare la miopia del mercato).

Il regista opta all’inizio per un tono  leggero, quasi da favola, nel suo riportarci alla colorata solarità dei “mitici” anni ’80 che sembra quasi voler celebrare nel narrare una storia emblematica che parla sicuramente di AIDS con tutta la drammaticità indispensabile correlata  a questa sindrome, ma che vuole essere anche (e soprattutto) una storia universalizzabile che ha molte altre frecce al suo arco e che diventa un vero e proprio “romanzo di formazione”, che parla di attrazioni, di amore (quello con l’A maiuscola), di una espansa forma di libertà sessuale, di condivisione, di  dolore  e di perdite irreparabili, che racconta insomma la progressiva acquisizione di una consapevolezza di vita e di “sentimento”, accompagnata dalla conseguente  disponibilità a mettersi in gioco – quando ne vale davvero la pena - senza preoccuparsi troppo delle conseguenze, con un senso implicito di “fratellanza” inteso come coesione di un gruppo che si riconosce nei bisogni e nelle affinità, inconsciamente finalizzato alla inedita ricostruzione di una nuova “modalità di famiglia” tutt’altro che istituzionalizzata, e per questo più spontanea e diretta.

Gli anni ’80  come ben sappiamo, rappresentano il periodo della più totale, disinibita e anche (perchè no?) “azzardosa” libertà sessuale, che trovò in Amsterdam uno dei poli attrattivi più affascinanti e all’avanguardia. È da qui che si parte allora , poiché è proprio ad Amsterdam che arriva Frank, giovane gay della provincia alla ricerca di una inedita realizzazione personale (ma anche di un agognato “principe azzurro” capace di trasformare il sesso in amore). La parentesi “giocosa” fatta di sesso e trasgressione inizia così quasi per caso, un viaggio agognato per uscire dalle proprie frustrazioni, fatto al seguito di una un po’ sgangherata compagnia poco affidabile,  che lo abbandonerà prontamente al suo destino, senza un tetto e un rifugio in una notte tempestosamente piovosa in cui un “riparo” è assolutamente indispensabile: si compiranno proprio attraverso queste prime inevitabili “opzioni” di scelta obbligata per non uscire sconfitti ed essere costretti a rientrare con le pive nel sacco, i primi passi di quel processo  sentimentale “educativo” e “formativo” alla vita, agli affetti, al sesso e all’amore.

Trova rifugio infatti in una strana comunità che lo accoglie prontamente offrendogli anche la possibilità di un lavoro: comincia così ad “imparare” il mestiere, per finire  ad esibirsi come ballerino e non solo, nella famigerata “House of Boys”, che lo ospita, un cabaret gay fra i tanti cha animavano in quegli anni la movimentata vita notturna della città, il cui proprietario, “Madame”, come si fa chiamare, è un enigmatico personaggio pieno di slanci e di reticenze, tiranno estensore di “norme” e di principi non tutti analogamente “esemplari”, che regola la vita dei suoi ospiti con discutibilissima (in)umanità (perfetta “realizzazione” interpretativa da parte di un eccellente Udo Kier, camaleontico, viscido e ambiguo sia in abiti maschili che nei numeri “en travesti”)  e sfrutta per i suoi affari e i suoi guadagni (che passano anche attraverso la droga e la prostituzione) quella nutrita schiera di ragazzi problematici, sbandati, o solo “smarriti” dietro una speranza o un sogno, che ha riunito intorno a se,  comunque in fuga da loro stessi o da una troppo oppressiva realtà familiare, e che fa ballare con l’erotica provocatorietà ammiccante dei loro corpi seminudi fra scenografie un po’ “camp” di forte impatto visivo. Sembra veramente all’inizio  una favola vera e propria (magari non proprio “edificante”). E così viene vissuta anche da Frank che vede  concretizzarsi prima la sua aspirazione di esprimere la sua personalità attraverso il ballo, e poi il suo ancora inappagato “bisogno d’amore”. I colori accesi delle forme,  coinvolgono anche lo spettatore trascinandolo dentro questo spensierato  gioco fatto di musiche e di balli che si intersecano e si sovrappongono alle vicende private dei personaggi che animano la storia, ciascuno con il suo bagaglio privato di un vissuto anche doloroso con cui faremo pian piano conoscenza: la maternale Emma “riconoscente” segretaria tuttofare, ma anche punto di riferimento familiare per le singole umanità  un po’ devastate dei trasgressivi abitatori della casa, il  “dolce”, ingenuo efebico elfo Angelo, determinato ragazzo “in trasformazione” che lavora e risparmia per coronare il suo sogno che è quello di farsi operare per diventare finalmente una donna; il problematico  Herman, vessato da un padre violento, che spesso per esibirsi deve farsi coprire col trucco i segni evidenti delle percosse, Dean il punk, e soprattutto il bellissimo e sensuale Jack,  americano di nascita che non ha una vera e propria natura gay (e che proviene dalle esperienze traumatiche  di un abuso infantile), vero e proprio oggetto del desiderio. Jack ha una relazione con una ragazza, ma è incapace di amare, e non esita a prostituirsi “passivamente” vendendo un corpo che non riesce a provare emozioni o passioni.

Le loro storie si intersecano, si ravvivano e prendono forma, dentro quel mondo all’apparenza pieno di euforia, spensieratezza e sesso, con  una libertà promiscua di costumi, capace però di far nascere anche l’amore che pi alla fine legherà inaspettatamente Frank proprio al fragile Jack, che arriverà così a scoprire attraverso questo rapporto per lui fortemente “anomalo”,  la differenza che  esiste fra un rapporto d’amore  e il semplice sesso  trasgressivamente compulsivo che ha sempre praticato.

Ben presto gli eventi precipitano però: le favole dei primi anni ’80 non possono avere un lieto fine, come si sa (ottima la documentazione storicizzata fra i discorsi televisivi di un Regan reazionario e negativista, e il testamento di Rock Hudson letto da Burt Lancaster, che ci riportano direttamente e con implacabile tempismo dentro al clima anche un po’ disorientato del periodo).

La scoperta è quasi casuale: un malore e una conseguente ferita procuratasi cadendo su un tavolo di cristallo che si frantuma, la inevitabile necessità di un ricovero per suturare i tagli, sono gli elementi che riveleranno ai medici e a  Jack l’esistenza avanzata “dentro di lui” di una patologia poco esplorata e conosciuta, spacciata ancora come “cancro dei gay”. La diagnosi diventa cos’ implacabile “sentenza di morte”, visto che la scoperta è tardiva e le cure insistenti: sistema immunitario ormai totalmente distrutto, e  il terribile sarcoma di Kaposi  già attivamente presente, che sta invadendo e deturpando lentamente il suo corpo… e sarà questa solo la prima delle devastanti conseguenze di un calvario inenarrabile esplicitamente esibito senza alcun compiacimento patetico. Diventata incompatibile la sua presenza nella casa (ne andrebbe del buon nome e renderebbe più difficoltosi gli affari) Jack viene cacciato senza tanti riguardi, ma trova provvidenziale rifugio dalla compassionevole Emma  che lo ospiterà insieme a Frank, che sceglie di andare con lui, seguendo l’impulso del cuore, per prendersene cura fino alla fine. La forza dei sentimenti che supera dunque quella delle ambizioni: Jack è diventato la sua vita e il  suo periclitante futuro, e non possono esserci reticenze o paure, se non quella di perdere troppo presto una straordinaria stabilità sentimentale che rischia di svanire troppo presto.

Tutto già visto e riproposto più volte? Sicuramente è così, non ci sono mai troppe variazioni nelle storie dei sentimenti e delle passioni forti. Ma non è certamente un problema questo: il cinema , i romanzi, la vita stessa, sono zeppi di analogie ripetitive, e come sempre poi, non è tanto ciò che si racconta (la vicenda potrebbe sembrare a qualcuno persino un pò retorica e un tantino  “abusata” anche se a mio avviso è tutt’altro che così persino sotto questo aspetto) ma è  come la si racconta a fare la differenza, è il “tocco” speciale che gli si impone, il ritmo e le contrapposizioni tematiche,  quella capacita insomma di impaginare anche un azzardo che qui si estrinseca nella intuizione un pò istrionica di aver  caratterizzato le due parti in maniera molto differenziata anche sotto il profilo dello stile visivo,  facendole restare però “complementari” e indispensabili , perfettamente fuse l’una nell’altra, realizzando la prima come uno straordinario,  coloratissimo semi-musical, sorretto per altro da una strepitosa colonna sonora piena di suggestive presenze  “musicali” fondamentali per l’epoca (Roy Orbison, Jimmy Somerville,  D.A.F , J. Hendrix, e così via dicendo, sono i nomi che si rincorrono in una eccellente, emozionante, entusiasmante e composita carrellata vintage  di suoni e parole “fortemente evocativi”) dove le concessioni più estremizzate ed avvolgenti,  riguardano soprattutto l’erotismo espresso dalle sinuose movenze dei corpi che non si negano, senza alcun bisogno di ricorrere alle pruriginosità  esplorative un po’ hard di particolari anatomici. Il giocoso slancio di una gioventù sfrenata dunque, che lentamente trascolora poi (per raggelarsi alla fine nel dolore e nella rabbia) nel fiammeggiante melò  della seconda parte, e non è un caso che il “travagliato Natale” della sofferenza,  sia accompagnato dalle sequenze trasmesse in televisione del Sirk di Lo specchio della vita, quelle per intenderci, del funerale durante il quale Mahalia Jackson canta Trouble of the World, un momento anche qui fondamentale, paragonabile come presa emotiva, a quello celeberrimo  di Philadelphia (il dolore lacerante espresso dalla musica di  Giordano e la voce della Callas).

E – lo ripeto - le due parti risultano perfettamente  bilanciate fra loro,  si misurano e si fronteggiano  come meglio non sarebbe stato possibile fare, in un crescendo drammatico, che porta lentamente verso la tragica, inevitabile conclusione che nell’epilogo della dispersione delle ceneri in Africa, sembra poi sciogliersi in un momento di  ritrovata serenità (il “cantante di strada” – la voce credo sia quella di Nico – e la sua romantica, struggente canzone, con la chitarra che emette suoni che sembrano sgorgare dal profondo dell’anima, una ulteriore conferma  che nella poetica dir Schlim, la musica è il prioritario elemento di raccordo “emozionale” per esaltare la potenza delle immagini e la composizione figurativa delle scene e del montaggio).

Anche la rivisitazione del “melodramma” è dunque puntuale e ragionata, potente per la drammatica intensità che espone, e mai mielosa. Ha frequenti passaggi di intenso lirismo che rifuggono in toto i toni del “come eravamo” e il non indifferente pregio di farci ricordare che non ci riferiamo a una realtà del tutto tramontata, perché per dirla con Brecht, anche in questo caso il mostro è ancora fecondo fra noi ed è bene tenerlo presente.

L’urlo rabbioso quasi alla Anghelopolus del finale,  con al cinepresa che si verticalizza verso l’altro, è poi un altro momento di grande cinema,  con tutto il dolore rappreso, la disperazione che esprime e si espande, capace di farci percepire senza alcuna ulteriore sottolineatura, il peso di una ingiustizia e di una privazione.

L’altra importante intuizione registica (dovuta per altro in gran parte alle ristrettezze del budget) è quella di avere puntato su interpreti praticamente sconosciuti, ma convincentemente coinvolti nell’impresa (nel cast, di nomi conosciuti e di fama, oltre al già citato Kier c’è solo lo Stepehen Fry di Wilde e de Gli amici di Peter), un’altra delle carte vincenti dell’opera,  perché sono tutti davvero bravissimi e in parte, aumentano notevolmente l’aderenza alla realtà, rendendo ancor più  credibile la tragica umanità di questa bellissima “Imitation of Life” che Schlim ha voluto regalarci.

Insignito con pieno merito del premio “Best film” (“Luxembourg Film Award 2009”) il film ha avuto in patria un successo abbastanza consistente (in Germania dovrebbe essere in distribuzione invece proprio in questo periodo). Da noi, è transitato da Torino (25° GLBT Film Festival) per approdare poi a Firenze per una sola proiezione alla presenza del regista, in occasione della Giornata Mondiale contro l’Aids (interessante e propedeutico il lungo confronto con il regista al termine della visione dell’opera), grazie al Florence Queer Festival.

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