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Sierra Maestra

Regia di Ansano Giannarelli vedi scheda film

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La recensione su Sierra Maestra

di spopola
8 stelle

Non è ormai molto frequentato qui da noi il nome di Ansano Giannarelli, documentarista (e non solo) d’elezione, costantemente  impegnato sul fronte di un cinema militante, nato a Viareggio il 16 ottobre del 1933, tanto che probabilmente molti al giorno d’oggi non solo non conosceranno i suoi lavori, ma non saranno nemmeno in grado di “inquadrare” anche storicamente parlando, il suo percorso artistico/politico, al di là magari del fatto che è stato in età giovanile e per un breve periodo, aiuto regista di Monicelli.

L’oblio che avvolge soprattutto qui in Italia “certo cinema”, è davvero inaccettabile (fa male insomma al cuore e alla mente), e devo dire dunque che è stato per me più che sorprendente, interessante e anche un po’ commovente in fondo, rilevare come invece altrove (al di là dei limiti angusti della nostra frontiera intendo dire) le cose si muovano ancora in direzione opposta, tanto che è stato proprio durante il mio recente viaggio all’estero che ho avuto il piacere di imbattermi (e di rivedere) il suo Sierra Maestra , inserito in una rassegna di proiezioni che, se ho ben capito il titolo, data la scarsa dimestichezza che ho con la lingua tedesca, era di Cinema e contestazione che comprendeva anche molto Godard e Lontano dal Vietnam, fra i tanti titoli sconosciuti  che non sono riuscito ad individuare per i già dichiarati problemi di idioma.

Forse l’opera più importante di questo “misconosciuto” autore, rimane il documentario d’esordio 16 ottobre 1943 del 1961 (anche candidato all’Oscar nella sezione “cortometraggi”), editato qualche anno fa persino in DVD, che rievoca magistralmente i fatti relativi alla ricattatoria richiesta di 50 Kg di oro per garantire la mancata deportazione degli ebrei romani, ma che una volta acquisito il “tesoro” raccolto, le SS naziste eseguirono ugualmente prelevando con la forza dal ghetto e dagli altri quartieri della città ben 1024 persone, spedite poi a morire, incuranti dell’impegno preso, nei lager di sterminio in Germania (i fatti in forma più convenzionalmente romanzata e di gran lunga meno efficace, sono stati raccontati sempre nel ’61, anche da Carlo Lizzani con il suo L’oro di Roma interpretato da Jean Sorel, Gérard Blain, Annamaria Ferrero, Paola Borboni e Andrea Checchi).

Questo Sierra Maestra, girato nel 1969, è invece il primo interessante approdo del documentarista al cinema a soggetto, e ne esce un film denso di importante “significato storico” e di laceranti interrogativi che è davvero ingeneroso liquidare come fa il Mereghetti come un’opera un po’ velleitaria legata ai tempi e alle mode che, mescolando documentario e finzione, è per il suo dizionario poco più di un pretesto per un dibattito “politico” (di quelli cioè che si tenevano nei cineclub e altrove negli anni caldi della contestazione e che oggi fanno “sorridere” proprio per la loro sterile improntitudine). Certamente è un tipico frutto di quell’epoca, con tutti i vizi e le contaminazioni (persino stilistiche) che “datano” profondamente quelle opere, persino un po’ troppo verboso e disomogeneo, questo non può essere negato, ma è mosso da una passione “ardita” che lo rende ancora oggi se non proprio “attualissimo”, molto più di uno sterile reperto archeologico. Ricordo i dibatti accesi che seguivano proprio le proiezioni dell’epoca, e fra queste principalmente una alla quale era presente lo stesso regista che difendeva accanitamente la sua opera, attaccata da più parti soprattutto da sinistra per quel suo interrogarsi “critico” sulla posizione degli intellettuali e  sui rapporti interclassisti di pensiero..

Presentato nella selezione ufficiale alla XXX Mostra di Venezia del 1969, fu per altro già in quella circostanza oggetto di aspre polemiche e diatribe, a conferma della vitalità persino un po’ spiazzante dei suoi contenuti, e se uscì da tale competizione praticamente privo di riconoscimenti ufficiali, si aggiudicò in seguito numerosi premi (Laceno d’oro 1969, Noce d’oro 1970, Premio della contestazione al Festival di Nyon del 1970).

Lo potremmo allora meglio definire (come per altro fa il Morandini), un film didattico girato con ardore ed appassionata dedizione nell’ispirarsi al caso di  Régis Debray, il francese compagno di Che Guevara, ma per andare ben oltre quel drammatico evento e agire poi su più piani, spostandosi dal terreno  ancora rovente della guerriglia latinoamericana (sulla quale fornisce per altro una importante ed essenziale documentazione di indubbio interesse) fino alla Sardegna, per una un po’ troppo mitizzata ipotesi di lotta armata di matrice “terzomondista” che proprio da tale isola avrebbe potuto (dovuto) prendere origine e divampare. Considerando ciò che è accaduto poi proprio in quell’isola (ma non solo, ovviamente), adesso c’è persino da rabbrividire sembrandoci la cosa addirittura “fantascientifica”, ma allora, per come eravamo messi, era un’ipotesi che poteva sembrare, sia pure con qualche forzatura ideologica, persino percorribile.

Non un andamento comunque piatto, ma che si tingeva  spesso di annotazioni emozionalmente poetiche, con citazioni di Camillo Torres lette da Bruno Cirino e i versi dal Marat-Sade di Peter Weiss interpretatati da Carla Gravina a impreziosirne il tessuto.

Per valutare adesso con maggiore attendibilità questo Sierra Maestra e comprenderne davvero il significato profondo, credo che si debba partire dallo stabilire proprio ciò che il film non è (e non voleva essere). Diciamo allora subito che pur attingendo a molto materiale “reale”,  non è certamente un “documentario” in senso stretto quello che ci troviamo di fronte (non a caso si parla di “cinema a soggetto” anche se di un tipo un po’ particolare), né tantomeno uno “pseudo documentario” poeticamente ricostruttivo (nemmeno per quel che riguarda la parafrasi della cattura di Débray e le torture a lui inflitte dai gorilla boliviani si incorre in percoli di questo tipo). Non è però nemmeno un’opera didascalica sul dilemma tra lotta democratica e guerriglia (uno dei punti fondamentali degli scontri dottrinali dell’epoca) o peggio un racconto sui problemi esistenziali degli intellettuali europei di sinistra. Sono evidentemente tutti elementi che attraversano e condizionano l’opera, ma che non la rappresentano né definiscono pienamente, perché il film intende essere principalmente una riflessione (che in molte delle  sue parti riesce  a diventare, con programmatica efficacia, anche una testimonianza e un monito),  che aiuta a interrogarci e a cercare delle risposte.

E’ la struttura stessa della pellicola  che comprova le diversificata molteplicità dei poli d’attrazione che hanno suggestionato il regista (e dai quali ha preso le mosse per comporre il complesso mosaico), esemplificati per altro proprio dai differenti elementi sui quali Giannarelli lavora anche “in equilibrio un po’ precario” a volte.

Ma torniamo a quello che è lo “snodo” principale del racconto, che è poi la storia  di tre personaggi, un giovane intellettuale italiano, un fotografo e un guerrigliero (quest’ultimo interpretato dal regista argentino Fernando Birri allora esule in Italia), che si trovano rinchiusi in una stessa cella in un paese dell’America Latina. Saranno così costretti a subire ogni sorta di pressione fisica e morale da parte della polizia militare e degli agenti della CIA, reagendo in maniera difforme alle torture, cosicché  Manolo, il guerrigliero, verrà ucciso, il fotografo più “collaborazionista” verrà liberato, e il solo intellettuale italiano resterà segregato nella prigione.

Quello che interessa è dunque soprattutto il dibattito interno alle differenti posizioni, le evoluzioni e le conseguenze delle “scelte” o dei cedimenti. Il tutto (questa intensa e sofferta odissea personale, intendo) alternando il racconto vero e proprio con il prepotente supporto del materiale documentario relativo alla guerriglia venezuelana per restare ancorati alla realtà e non farci apparire meramente astratti i ragionamenti e le osservazioni, e con le sequenze più “intimiste” degli amici e degli affetti dell’intellettuale, rimasti a Roma in trepidante attesa del suo ritorno, anch’essi problematicamente impegnati su più fronti di discussione.

C’è quindi, come si può ben dedurre da queste premesse, un primo elemento che permette di evidenziare come il concentrarsi più importante del percorso sia proprio sul conflitto tra idealismo politico e azione, che esplode prepotente soprattutto nella coscienza dell’intellettuale progressista quando si trova direttamente a confronto con le lotte  di liberazione del Terzo Mondo che lo obbligano  a fare scelte di classe troppo a lungo rinviate.

Giannarelli affronta così  criticamente proprio una delle diatribe più scottanti di quei tempi (e non solo) servendosi appunto di personaggi la cui collocazione sociologica potrebbe apparire persino strumentale, perché portatori di problematiche anche “etiche” che potrebbero essere facilmente estrapolate da quelle dell’intera classe operaia poiché a questa totalmente estranee.

Dietro le immagini dell’odissea dell’uomo, è infatti anche troppo facile (per lo meno adesso, proprio come si dice “col senno di poi”) intravedere le inquietudini di un posizionamento ambiguamente contorto fra il “dire” e il “fare”, che in ogni caso volenti o no, ha contribuito enormemente (ed è un dato oggettivo) al rafforzamento di una struttura sociale fortemente massificata della quale sperimentiamo ogni giorno ingiustizia e disumanità, ma che ha purtroppo inevitabilmente coinvolto a catena tutte le classi e le categorie sociali, nessuna esclusa (il consumismo aveva evidentemente questa “forza destabilizzante”).

Il corpo a destra, l’anima a sinistra dice a un certo punto  l’intellettuale-guerrigliero che è al centro del film (difficile disconoscerne la veridicità) e se in quegli anni sembrava quasi impossibile accettare la possibilità di utilizzo di questo assioma per il mondo operaio e contadino, adesso tutto sembra davvero molto più confuso poiché anche queste residue propaggini proletarie sono state costrette (o invogliate?) ad adeguarsi e ad accettare nuove regole, rafforzando così anche con la loro opera (o disinteresse di classe?) quegli stessi strumenti che servono a sfruttarli in nome del profitto e ad opprimerli (i casi recenti della Fiat pur se non generalizzati a tutto il contesto, ne sono l’evidenziazione più terribilmente evidente con quell’osceno ricatto del “prendere” o “lasciare” che sembra non permettere alcuna differente via d’uscita, o così vogliono farci sembrare che sia).

Se il discorso di Giannarelli si limitasse semplicemente a questo aspetto però, sarebbe semplicemente un avveduto anticipatore di una interminabile serie di opere  cinematografiche dedicate alla crisi anche ideologica degli uomini della sinistra e al conseguente, inevitabile “regresso” sociale che ne deriva, e aggiungerebbe a ciò davvero ben poco, poiché diventerebbe semplicemente l’analisi di un travaglio adesso un po’ scontato perchè leggibile attraverso la patina ingiallita di un “itinerario della memoria” dal sapore persino un po’ ambiguo.

La forza dell’opera sta invece nel fatto che il regista ha saputo perfettamente cogliere (e restituirci) i termini dolorosi di un disagio che se allora era più embrionale, adesso è preponderante, e la cui trama intreccia semmai strettamente impotenza sociale e depressione esistenziale (e in questo, il film è  abbastanza vicino alle tesi sostenute da Godard e Resnais nei loro episodi inseriti nell’opera collettiva Lontano dal Vietnam,  oltre che a ciò che rappresenta e dice sempre Resnais con La guerra è finita). Naturalmente esistono “assonanze” e “dissonanze” - e soprattutto fortissime divergenze anche stilistiche – fra tutti questi titoli. Il parallelo intende sottolineare semplicemente come davanti a una frattura fra “ciò che siamo effettivamente e ciò che crediamo – o peggio pretendiamo - di essere”, ci sono autori – e Giannarelli a mio avviso è stato uno di questi – capaci di affrontare il problema utilizzando una metodologia in chiave prettamente marxista basata sull’analisi della constatazione sconfortata che non sempre esiste una identità diretta o conseguente, fra “essere” e “agire” che ci impedisce a volte di essere invece “estremi” come sarebbe necessario, ma indicando nel contempo anche le strade percorribili per raggiungere questa necessaria “unificazione”.

Nell’accettare la preminenza della componente sociale su quella ideologica (Per noi le tue sfumature non sono altro che ambiguità. Per noi non si tratta infatti di salvare il cervello o la coscienza, ma di giocarsi la pelle) Giannarelli porta allora avanti idealmente il discorso della coerenza a tutti i costi, contrapponendosi alla posizione più generalizzata dell’intellettuale europeo che pur avendo scelto a suo tempo la via della solidarietà attiva, ci si è poi impaniato dentro a causa della propria inerzia, finendo così proprio nelle mani repressive della società dei consumi e dell’americanismo ormai di moda un po’ dappertutto che ha preso il sopravvento su ogni altra cosa.

Come scrisse a suo tempo Umberto Rossi su Cinema sessanta,  la coerenza straordinaria del discorso che Giannarelli porta avanti, è rilevabile proprio dall’esclusione di proposte catartico-universalistiche: “E’ proprio qui che ho capito che i nostri problemi sono diversi, e quindi è diversa la funzione dell’avanguardia rivoluzionaria”, poiché per lui il problema non è quello di giudicare moralisticamente o di guardare indietro con mesto rimpianto, bensì quello di “reintrodurre anche in Europa una tensione ideale, ideologica: e questo può scaturire soltanto dalla dialettica tra operai, braccianti, pastori e studenti da un lato e partiti veramente rivoluzionari dall’altro”, quella stessa dialettica che il regista  introduce attraverso gli “intermezzi” di collegamento con la lotta reale (gli inserti filmati sulla guerriglia venezuelana) e con i flash di “cinema verità” in cui i pastori-comparse entrano nella vicenda con le loro problematiche, saldando fra loro  “situazioni socio-economiche (…) caratterizzate da elementi analoghi”. Che poi le cose abbiano preso purtroppo un’altra totalmente diversa direzione, non è certamente colpa di Giannarelli o del suo cinema “ancorato a una improbabile rivoluzionarietà programmatica”, ma è semmai esclusivamente imputabile della stupidità umana che sembra accontentarsi dell’osso rinunciando per sempre al prosciutto che non ha mai posseduto.

Ritornando al film, l’analisi del personaggio dell’intellettuale italiano, prende poi corpo e si sviluppa di riflesso, anche attraverso le brevi sequenze che il regista “recupera” dalla vita di coloro che sono rimasti a casa (Carla e Giacomo) e nei loro gesti che definiscono un’impotenza e un’insoddisfazione che potrebbero essere definite di “inadeguatezza operativa”.

Dal punto di vista strutturale dell’opera, esiste comunque uno scompenso che a volte diventa “frattura” fra la forza delle enunciazioni verbali e il vigore delle immagini: per quanto il film sia stato realizzato con notevole abilità grazie anche all’apporto della fotografia di  Marcello Gatti, tanto che non si avverte minimamente il peso di una ambientazione per tre quarti limitata dentro lo stretto perimetro claustrofobico di una cella, manca forse poi la capacità (o l’esperienza) per riuscire ad amalgamare perfettamente ed omogeneamente la spregiudicatezza dell’analisi (che è straordinaria) con una corrispondente inventiva figurativa spesso più precaria. Inoltre non sempre è sufficientemente dosata la miscelazione dei vari momenti, e “movimenti”: analisi psicologica dei personaggi, ricerca politica e racconto “morale”, che vorrebbero aspirare (e solo in parte ci riescono) a un superamento della funzione meramente “spettacolare” dello strumento filmico, poichè (e sono ancora parole di  Umberto Rossi) l’utilizzazione dei brani documentari della “vera” guerriglia per quanto di straordinaria presa emotiva, ha più il sapore di una prova d’attendibilità delle tesi del regista che non la funzione di fornire materiale plastico amalgamabile alla struttura portante del discorso di fondo del film, così come il momento “straniante” di esemplificazione della realtà “planetaria” del Terzo Mondo mediante l’interruzione dello svolgimento della vicenda attraverso le interviste (a quei pastori sardi a cui si accennava sopra), è valutabile, sulla base della realizzazione definitiva, più come una limpida intuizione che come una felice invenzione filmica.

Si può comunque dire allora, che pur con gli evidenti limiti  di un’opera a suo modo “prima”, Sierra Maestra entra a pieno titolo nella ristretta cerchia di un cinema comunque militante,  teso cioè a restituire alla macchina da presa la potenzialità rivoluzionaria che essa acquista ogni volta che viene utilizzata  per tentare di rovesciare gli esistenti rapporti di forza fra produzione, libertà intellettuale di pensiero e di espressione, e creatività vera e propria. Adesso potrebbe sembrare un’utopia, ma in tempi non tanto lontani era questa una prospettiva più che allettante e soprattutto “dichiaratamente” perseguibile….

Da questo tipo di cinema Giannarelli mutua, come abbiamo visto, pregi (di coraggio) e errori (di generosità), perché, come dice uno dei personaggi del suo film, il mondo è uno, o almeno dovrebbe esserlo, per cui è impossibile separare la lotta politica dalla cultura, la staticità anche sconfortata dall’azione e dal movimento. Il farlo, vorrebbe dire – e lo stiamo constatando sulla nostra pelle – non comprendere la sostanziale utilità di ogni forma di lotta (anche personale e privata) contro l’internazionale dello sfruttamento che mai come adesso ha acquisto il vigore di una inaudita violenza. E allora per lo meno questo “valore” dobbiamo riconoscerlo a Giannarelli, perché lui ci credeva davvero (non so se il suo pensiero sia rimasto immutato col tempo), e si percepisce proprio per l’onestà introspettiva di questa indagine sulle coscienze.

Gli attori, oltre ai gia citati Bruno Cirino, Fernando Birri e Carla Gravina, sono Antonio Salines, Giacomo Piperno, Fabian Cevallos, Franco Graziosi e Arnaldo Bellafiore. L’appropriato commento musicale, è invece opera  di Vittorio Gelmetti.

Fra le successive, esigue prove che il regista  è riuscito a portare a termine, da segnalare almeno Non ho tempo del 1973, sperimentale e avanguardistica rievocazione a incastri della breve vita del matematico francese Evariste Galois su sceneggiatura dello stesso Giannarelli e di Edoardo Sanguineti e la consulenza di Lucio Lombardo Radice.

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