Robin Hood torna in una muova serie MGM+ dal 2 novembre. E non è più solo il leggendario arciere della foresta di Sherwood, ma un uomo in carne e ossa, giovane, incerto, spezzato dalla violenza del potere. I dieci episodi propongono un adattamento crudo e radicale del mito, affidando al volto nuovo di Jack Patten il compito di guidare lo spettatore nella trasformazione di Robert di Locksley: da figlio di nobili decaduti a simbolo della ribellione.
Un reboot che punta dritto al cuore del mito, lo smonta e lo ricostruisce, lasciando spazio non solo all’azione, ma a identità complesse, relazioni attraversate dal dubbio e un’Inghilterra medievale più viva che mai.

Prima di Sherwood
Quando lo incontriamo per la prima volta nella serie Robin Hood, Robert di Locksley ha 24 anni. Non è ancora l’eroe col cappuccio, né il fuorilegge che sfida re e sceriffi. È solo un giovane sassone con un’eredità familiare spazzata via dalla brutalità del potere normanno.
L’esecuzione del padre e l’espropriazione della sua casa lo costringono a una fuga esistenziale che diventa presto una lotta politica. Il percorso di Rob non è una corsa all’eroismo, ma un lento, doloroso mutamento. Si forma tra le ferite, le perdite e l’incontro con altri emarginati. Quando sceglie la via della ribellione, lo fa non per gloria, ma per necessità: non c’è più nulla da perdere, se non le catene.
Due mondi, una sola fiamma
La figura di Marian (Lauren McQueen) nella serie Robin Hood rompe con gli stereotipi del passato. Figlia di un potente normanno, è cresciuta nell’agio ma non nella libertà. La sua adesione alla causa di Rob non è una fuga romantica, ma una scelta consapevole, frutto di un’evoluzione personale. All’inizio è inesperta, legata al mondo che l’ha cresciuta. Ma l’incontro con Rob – e con l’ingiustizia sistemica che lo ha travolto – accende in lei una presa di coscienza che la porta a trasformarsi.
Marian scopre la propria forza nel confronto diretto con il potere, diventando stratega e voce autorevole tra i ribelli. La relazione con Rob, per quanto centrale, non è il suo unico motore: è parte di una dinamica più ampia, fatta di scelte, sacrifici e autonomia.

I volti del conflitto
Accanto a Rob e Marian nella serie Robin Hood si muove una galleria di personaggi sfaccettati, nessuno dei quali ridotto a semplice spalla. Frate Tuck (Angus Castle-Doughty), giovane monaco mosso da ideali di giustizia vera, abbandona i dogmi per unirsi alla lotta. Little John (Marcus Fraser), ex criminale e cacciatore di taglie, è vinto non dalla retorica ma dalla determinazione morale di Rob, e diventa il suo alleato più fedele.
Persino nella corte nemica le linee sono meno nette del previsto. Priscilla di Nottingham (Lydia Peckham), figlia del crudele Sceriffo (interpretato da Sean Bean), mostra un intelletto affilato e un’ambizione capace di influenzare le azioni del padre. Sullo sfondo, figure come la Regina Eleonora d’Aquitania (Connie Nielsen), simbolo di potere e diplomazia, testimoniano la complessità dei giochi politici che attraversano la serie.
Il potere, la violenza e la possibilità di cambiare
Uno degli aspetti più interessanti della serie Robin Hood è la riflessione sulla costruzione dell’identità. Rob non nasce eroe: lo diventa. E per farlo, deve prima accettare di perdersi. La serie, creata da John Glenn, punta tutto su questo arco narrativo. È il racconto di una formazione – prima personale, poi collettiva – che si fa leggenda.
Il tono ricorda più Peaky Blinders che i precedenti adattamenti di Robin Hood, perché è radicato nella tensione sociale, nella violenza strutturale, nelle ambiguità morali. Qui, il nemico non è solo lo Sceriffo, ma l’intero sistema feudale che consente a pochi di dominare su molti. La foresta non è solo rifugio, ma laboratorio di resistenza e rivoluzione.
Il peso di un’eredità
Ogni nuova incarnazione di Robin Hood deve fare i conti con un’eredità pesante: da Errol Flynn a Kevin Costner, fino a Russell Crowe, l’arciere ribelle ha attraversato epoche e stili. Patten, pur essendo al suo primo ruolo da protagonista, sceglie la via più rischiosa: quella dell’essenzialità. Pochi gesti, molta introspezione, nessuna posa da eroe. Affiancato da un cast solido e da una produzione che ha investito molto anche sul piano fisico – con lo stesso attore coinvolto nelle acrobazie e negli allenamenti – riesce a rendere credibile la trasformazione del personaggio, portandolo dal dolore personale alla guida collettiva.
In un momento storico in cui le narrazioni eroiche tradizionali mostrano la corda, la serie Robin Hood si presenta con un messaggio chiaro: la giustizia non è mai concessa, va conquistata. Questa versione non cerca l’evasione, ma il confronto. Si muove tra classi, genere e potere con l’intento di attualizzare un mito antico, senza renderlo sterile o didascalico. Non ci sono santi né martiri: solo uomini e donne che decidono di resistere. E forse, proprio per questo, è la versione di Robin Hood che oggi ci serviva.

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